Alla 10a edizione del Festival internazionale Visioni dal Mondo – tenutosi al Teatro Litta MTM di Milano – ho avuto il piacere di assistere alla presentazione del documentario Femmenell diretto dal regista romano Andrea Fortis.
Un percorso di ricerca sociologica che immerge lo spettatore all’interno della figura transgender del femminiello napoletano attraverso la cultura popolare partenopea. Grazie all’atto primo – tenutosi in città e premiato con il riconoscimento Rai Cinema dedicato al giornalista Franco Scaglia – ho avuto il piacere di scambiare due chiacchiere con Andrea.
La figura del femminiello: inclusione e rappresentazione del patrimonio urbano napoletano. Quali valori eredita la città di Napoli?
Una domanda articolata. Il femminiello napoletano si lega ad una cultura estremamente antica che risale ai tempi della Magna Grecia presentandosi ai giorni nostri attraverso i propri inevitabili mutamenti. Una figura non binaria che continua ad essere valorizzata in particolare per la sua unicità e la sua trasparenza raccontando uno spartito del quotidiano partenopeo e internazionale. Napoli, essendo un luogo di mare: integra, assimila e trasforma; una ricchezza tipica di città portuali come ad esempio Genoa o Marsiglia.
Tra le espressioni spirituali più partecipate e sentite in Campania esiste quella della Candelora che ogni due febbraio viene celebrata tra danze tradizionali, canti popolari, preghiere e benedizione dei ceri.
Mamma Schiavona e la juta di Montevergine. Andrea che emozione traspare da riti così sentiti?
Bisognerebbe chiederlo a persone come – l’ospite e protagonista del docufilm – Ciro Ciretta Cascina o al re della tammurriata Marcello Colasurdo (pace all’anima sua) che hanno sempre vissuto con grande passione il rito della juta (salita verso il Santuario di Montevergine). Personalmente, una volta arrivato in cima alla montagna ho percepito una forte connessione tra popolo e territorio, come una sorta di ascensione. Lì, sono rimasto soprattutto affascinato da un rito, quello della danza tradizionale che alterna devozione, cultura e che ha il potere di rigenerare corpo e mente. Una ballata su canti popolari dove dei movimenti circolari portano quasi a perdere coscienza e allo stesso tempo scrollare pesi inutili da dosso. Ritornando ai giorni nostri è un po’ come andare in un club sfrenandosi e ballando ininterrottamente su pattern elettronici sino a ritrovarsi in quella sensazione di nirvana.
Pino Daniele, Fabrizio De Andrè e Tommaso Primo. Diverse epoche a confronto che omaggiano e raccontano, a modo loro, temi legati alla fluidità di genere. Qual’è il tuo punto di vista?
Una partecipazione quasi sempre esistita che si rinnova di volta in volta grazie principalmente a chi la narra. Diamo quasi per scontato che in giro per il globo esistano solo figure binarie, in realtà non è proprio così. Difatti, ad oggi stiamo riscoprendo tutto ciò grazie soprattutto al lavoro di studiosi e artisti che aiutano il processo di curiosità e comprensione. Inoltre, sono tante le società al mondo che contemplano il genere non binario. Diversi esempi: i femminielli a Napoli, i Nat-Kadaw in Birmania o Le Muxes nel Messico del Sud. Esempi simili e soprattutto più vicini alla nostra cultura si possono trovare nei Balcani con le Burrnesha: donne che per motivi di emancipazione decidono di vestirsi da uomini e tali vengono identificati all’interno della società.
Una volta conclusasi l’intervista io e Andrea, continuando la nostra chiacchierata, ci siamo nuovamente emozionati pensando all’immenso regalo di Ciro Ciretta Cascina che – nel teatro milanese dell’MTM – ha introdotto noi e il pubblico alla sua libera interpretazione de La Livella del principe Antonio de Curtis dove abbiamo assistito ad un vero e proprio scambio di informazioni emotive.
“Chillo è nu buono guaglione e vo’ essere na signora, chillo è nu buono guaglione crede ancora a ll’ammore…”
“Che Fernandinho mi è morto in grembo, Fernanda è una bambola di seta, sono le braci di un’unica stella, che squilla di luce di nome Princesa…”
“Oi signurina quanto ve pigliate, v’avverto si ve acchiappo so ‘nu squalo, So vinte pe’ ‘na pella e ‘nu grattino, v’avverto ca me chiammo Pasqualino…”