Blue Virus, musicista in attivo dal 2008, è, ad oggi, una delle voci più interessanti del panorama musicale semi-underground torinese, grazie alla sua vena malinconica e cruda.
Il suo primo album, I migliori anni del nostro mitra, del 2014, ha, non solo, permesso al rapper di ritagliarsi la sua fetta di pubblico, ma ha anche consacrato la sua forma artistica d’espressione, tendente all’analisi di situazioni con un occhio sempre personale.
Oggi, in occasione dell’uscita del suo ultimo lavoro, un EP dal nome Magliette che diventano Pigiami, interamente prodotto da Polezsky e disponibile su Spotify e sulle principali piattaforme, abbiamo avuto l’onore di intervistarlo, cercando di indagare il contenuto, dunque, degli ultimi pezzi pubblicati, e provando ad analizzare la sua figura di artista.
Dopo un anno pubblichi di nuovo qualcosa. Nonostante la domanda possa sembrare superflua dopo la premessa, come stai?
Sto bene, per così dire. Ogni volta che pubblico un progetto mi sembra di ricominciare, tra virgolette, perchè tento sempre di proporre qualcosa di leggermente diverso rispetto al passato, pur rimanendo fedele a ciò che ho costruito nel tempo, senza stravolgerlo.
Il tuo EP si chiama “Magliette che diventano pigiami”. Si tratta di un titolo che, per osmosi, richiama una situazione in cui qualcosa di nuovo, diventa obsoleto. Questo tipo di contenuto sembra rappresentare, per la maggior parte, l’endorsement della tua musica. Quest’ultima, per te, è un modo per elaborare un sentimento, che sia esso malinconico, di rabbia, oppure per canalizzarlo in qualcosa?
É tutto naturale, ti spiego: nonostante mi capiti di ascoltare, e talvolta di apprezzare, anche il contenuto più frivolo e positivo possibile, sono più a mio agio quando mi approccio alla scrittura sfruttando situazioni cupe, drammatiche, alle volte surreali.
Ingrandisco spesso la realtà per rendere più interessanti i brani, ma un fondo di verità c’è in quello che scrivo: un momento sono il più scherzoso ed ironico del mondo, quello dopo vorrei buttarmi di sotto e di conseguenza si riversa in quello che l’ascoltatore sentirà.
Sono contento di aver maturato, negli anni, un modo molto “mio” di scrivere ed è una cosa impagabile. Il vestito su misura questa volta me l’ha cucito addosso Polezsky, produttore ma soprattutto amico da tipo 12 anni.
Ci tengo a citarlo perchè in questo EP buona parte dei testi e delle strumentali hanno viaggiato a braccetto: magari lui stava abbozzando un beat ed io alle sue spalle giravo come un pazzo per la stanza scrivendo cose o improvvisando melodie nelle memo vocali del cellulare.
Nel tuo EP figurano Shade, Corrado e Yota Damore con cui l’anno scorso hai fondato WISH YOU WERE DEAD. Essendo tutti artisti Torinesi come te, com’è il tuo rapporto con la tua città?
Prima di emergere a Torino, ho collaborato con un sacco di artisti di altre città, come Roma e Milano, infatti tante persone (Shade compreso, ad esempio) inizialmente pensavano che non fossi di qui.
Mi sono accorto di essere torinese dopo un sacco di tempo, sarò sincero, forse proprio perchè ho iniziato ad entrare “tardi” in empatia coi miei concittadini, cosa non avvenuta con quelli che vivevano altrove.
Anche nel tuo nuovo lavoro, quasi come una firma, parli di situazioni precise, che immagini ed incastoni nelle tue liriche, come in Guard-rail, quasi come fossi un regista più che un musicista. Siccome anche l’apertura di Magliette che diventano pigiami vi fa riferimento in qualche modo, qual è il tuo rapporto con la settima arte?
É un rapporto poco pretenzioso. Ci sono le cose che mi piacciono, quelle che adoro, quelle che mi fanno davvero schifo e via dicendo, ma spesso e volentieri ciò che per tanti è superficiale e mal fatto, io lo trovo godibile e perchè no, lo riguarderei anche. Ormai poi sembra che sia una gara a chi rompe più le palle trovando imperfezioni in qualunque cosa. E non parlo solo di cinema.
La tua musica non si inserisce in un genere preciso; nonostante questo, non hai mai nascosto la tua predilezione per il rap, che si nota anche nelle collaborazioni che hai scelto per questo e per i tuoi lavori precedenti. Come giudicheresti la tua figura ad oggi, dopo questo EP? Ti senti un rapper, un cantante, un ibrido di entrambe, o nulla di tutto ciò?
Non lo so nemmeno io. Ho sempre pubblicato i dischi ufficiali dando più sfogo ad insicurezze personali ed aprendomi di più in ambito sentimentale, sfruttando invece i mixtape per dire le cose più psicopatiche e d’intrattenimento, pur mantenendo una precisione maniacale nella scrittura, cosa che per me è fondamentale. Ad oggi, ripeto, non lo so. Questo EP è una ripartenza, è un check point, che cos’è? Si avvicina sicuramente più ad un disco ufficiale per i temi e le sonorità, ma se ti dico che non so quale sarà il prossimo passo devi credermi. Forse col tempo questa cosa mi ha giocato brutti scherzi, perchè quando pubblico un nuovo progetto c’è sempre una fetta di pubblico che si sarebbe aspettata il contrario. Io però sento di fare musica sincera e se in un determinato momento esce quella roba fatta in quella maniera, è perchè dentro di me lo sentivo realmente. Magari poi mi stanco e pubblico una musicassetta Country. Tutto può essere.
In Boddah dici che non parli del tuo futuro. Nonostante ciò, tra un anno sarai sempre felice di essere triste?
Dubito si possa scegliere una cosa del genere. Ad occhi e croce, però, penso proprio di sì.