Non fa molto freddo in questi giorni; siamo in pieno inverno, eppure non c’è che un’aria tiepida, attraversata da una leggera umidità. Persino il vento pare avere un tepore diverso, mai percepito prima. Si parla del Napoli ovunque; in ogni dove, gruppetti di persone s’incontrano e parlano dell’impresa titanica di una squadra, in grado di mettere d’accordo grandi e piccini, donne e uomini. È una festa, questo Napoli. È una cosa di cui essere orgogliosi. Forse anche questo caldo anomalo si deve al Napoli, e a tutta questa sua immane forza.
Quando il Napoli vince accadono cose bellissime, e ciò che ha lasciato Maradona a questa città ce lo ricorda bene, in ogni momento: quella squadra, dal tetto del mondo, assiste allo spettacolo di una città che tenta di ripulirsi, in ogni modo, da ogni bruttura che l’appartiene. Non si tratta di una solennità, unicamente; quando parliamo del Napoli, sentiamo boati provenire da periferie – che s’abbracciano e si baciano, che s’uniscono in cori indelebili e melodiosi. Quando il Napoli vince, ci stiamo levando un bel po’ di paccheri dalla faccia; me lo diceva sempre mio padre, quando – dopo ogni goal – vedevo lui e mio fratello stringersi forte e mi chiedevo perché anch’io mi sentissi così stretta in quell’abbraccio. Credo che il Napoli abbia un potere – persino quando perde.
Mentre ascolto queste riflessioni, in pieno pomeriggio, attraverso il Parco Ciro Esposito che, improvvisamente si riempie di bambini – accompagnati da padri, fratelli e sorelle – che si passano un Super Santos. È divertente ascoltare quel rumore di tacchetti sull’asfalto e, mentre si scrollano le maglie tra una pausa e l’altra, un raggio di sole squarcia le nuvole. Penso che sia una scena bellissima e mi sento fortunata poiché scatto alcune foto.
“Basta, la gente è stanca” – sento tuonarmi alle spalle – “ci siamo stancati di queste immagini, del vostro entrare in casa nostra e saccheggiare.” Ripongo immediatamente la camera in borsa, sentendomi in colpa. Mi scuso e così, io e Davide Cerullo, ci stringiamo la mano, presentandoci. Mi offre un caffè, mentre ci dirigiamo verso “L’albero delle storie”, la sua casa – dove ospita qualsiasi persona voglia legarsi al suo progetto.
Entrare in casa sua è come attraversare un immenso giardino; percorriamo una rampa e ci dice che la natura ci lega al nostro io più puro. Io riesco solo a stare in silenzio; mi sento ancora in colpa per aver scattato quelle foto ed ho molta paura di averlo offeso. Lui mi capisce e sorride. Voglio ascoltare la sua storia ad ogni costo, quindi sto in silenzio, ancora.
Ci ospita nel suo laboratorio, tra gli sguardi sorridenti e curiosi dei suoi bambini, che saluta, mentre trova delle sedie per noi. Davide ha 48 anni ed è un poeta sopravvissuto e redivivo. Ci racconta di essere arrivato a Scampia nel 1980, date le disposizioni in materia d’edilizia residenziale pubblica stabilite dalla legge 167. Alla sua famiglia viene assegnata una casa proprio all’interno di quella che successivamente sarà definita “’a Cientsissantasett”.
“Sono stato un bambino senza infanzia” – dice Davide, quasi distrattamente – “forse è proprio questo il problema alla radice dei numerosi altri che affliggono Napoli e la sua costellazione di periferie, soprattutto: questa città non è per bambini, né per anziani, né per animali.”
Nono di 14 figli, il piccolo Davide non sa dove porre il suo sguardo bramoso di vita: è solo, mentre i morsi della fame attanagliano lo stomaco della sua famiglia. Ancora, è solo mentre alla sua porta bussa la malavita. Davide ha 10 anni e nessun punto di riferimento; spera solo di poter stare meglio. Davide, così, apre le porte della sua vita alla camorra.
Tra armi e droga da portare in giro, silenziosamente, da un quartiere all’altro, Davide si ritrova, ogni sera, con un nuovissimo paio di scarpe. “Impensabile” – ci dice sorridendo – “le scarpe, proprio quelle che io volevo, e che non potevo permettermi.” Ricostruisce con estrema minuzia ogni suo passo in quel mondo spietato, di capi e schiavi. A proposito di questo, ci racconta la sua scalata – dalla fogna alla vetta più alta, dalla quale si può solo cadere.
“E quindi, è così che io posso avere le cose, tutte le cose che voglio?” – si domanda Davide a 13 anni; lascia la scuola per entrare a far parte, a tempo pieno, del sistema camorristico. Ci spiega che quel sistema è avido e trova terreno fertile dove non c’è istruzione e dove vi sono famiglie numerose, come la sua. Il sangue, difatti, crea reti indistruttibili, legami inscindibili e, in famiglia, ci si tradisce di meno, ci si protegge di più.
Denaro e droga, potere e successo divengono le parole chiave nella vita di Davide. Varie volte finisce in carcere, per poi uscirne più arrabbiato e rancoroso di quando ci aveva messo piede per la prima volta.
“Hanno fatto questo: ci hanno esclusi, togliendoci tutto, e ci hanno reclusi, poi.”
Ci espone quest’equazione più volte nel corso della nostra chiacchierata, con vari esempi.
“Entro lì dentro che ho fatto qualcosa di sbagliato” – racconta, lucidissimo – “sto lì, in una cella piccolissima, con altri 25, simili a me, che pure hanno sbagliato per qualche motivo. Ne esco che sono adirato, che voglio fare peggio. Io volevo puntare una pistola in faccia a qualcuno.”
Durante un soggiorno nel carcere di Poggioreale trova un Vangelo; inizia a leggerlo e si scopre turbato da quello che legge. Strappa delle pagine da quel “libro” e le porta con sé, sino ad oggi. Uscito dal carcere, ritorna alla sua vita immediatamente, ma quei fogli gli bruciano la pelle, dalle tasche in cui sono riposti.
Gradualmente, Davide ritrova sé stesso, attraverso la poesia e l’idea di rivoluzione che deriva da ogni verso che legge. Si ritrova, nel segno dell’amore per la sua famiglia, per i figli Alessandro e Chiara, per la natura.
“Napoli vive gli stessi problemi da trenta o quarant’anni e temo proprio che il problema siano i napoletani stessi, noi e l’arrangiarci, l’accontentarci della luce che viene dalle crepe” – dice Davide, riflettendo su quanto ancora venga tolto ai giovani, da troppo tempo – “vorrei che s’insorgesse, che ci si unisse – esattamente come quando il Napoli vince, per i diritti dei figli di questa terra, perché loro sono il futuro, non io.”
Davide racconta di essere affezionato ai poeti e alla natura; ci parla di un rivoluzionario, che ammira molto. Dice che Gesù è un rivoluzionario ultramoderno, al quale guarda con amore, perché è davvero morto per il prossimo, nonostante tutti gli screzi da questo ricevuti. Ci dice che un pastore, nel Vangelo, lascia il suo gregge per cercare una sola pecora scomparsa; ci dice che quella è la sua idea d’amore.
“L’amore è curarsi del prossimo perché è unico” – dice Davide, mentre ci presenta i suoi bambini, i suoi amici e collaboratori, le sue pecore, la sua famiglia.
“I nostri ragazzi hanno bisogno di libertà, e la libertà viene dall’istruzione” – affonda il poeta Davide – “i nostri ragazzi hanno bisogno di immaginare una realtà diversa, non quella dei morti ammazzati, non quella del terrore. Hanno bisogno di sognare e spingere i loro sogni oltre le Vele e la zona di depressione, oltre i colpi d’ascia di una camorra che non è mai stata antistato ma che s’è sempre maggiormente rivelata sistema in questo deserto.”
I piccoli di Scampia, di Napoli, d’Italia, del mondo hanno il diritto di sognare e sperare.
“Speranza” – sospira Davide Cerullo – “questa parola è quasi una bestemmia qui, ci hanno tradito troppe volte e, mentre tutti hanno assistito allo spettacolo creato intorno a queste case, i nostri ragazzi erano corpi vivi, esposti in competizione e poi dimenticati.”
Ci lasciamo e Davide ci dona un libro: è la storia di un bambino a rischio, in una terra in ostaggio, escluso e poi recluso. È la storia di un’architettura che abbraccia altre infinite storie. È la storia del riscatto di Davide Cerullo – un uomo che vive per il rumore di un sorriso.
Usciamo dalla sua casa, abbraccia il figlio e ci saluta. Sull’uscio, una scritta mi fa pensare: “Attenzione, non calpestare: ci sono dei sogni che ce la stanno mettendo tutta.”