Sono mesi ormai che esce musica a raffica: X Factor, Spotify, Instagram, Tik Tok sfornano hit che durano il tempo di uno scroll. Nell’ultimo anno è uscita più musica in un solo giorno che in tutto il 1989, e io l’ho ascoltata tutta, o almeno tutta quella che il mio Spotify e il mio algoritmo pensano che io voglia ascoltare, una sorta di dj set privato senza dj.
E allora scrolliamo anche stamattina. Anche se pensandoci è troppo presto, non ho nemmeno bevuto il caffè. Mentre ci penso mi ritrovo davanti al post di Marracash: sfondo nero, una bolla colorata che lo avvolge con tutte le sfumature primarie. Lo guardo distrattamente, continuo a scrollare. Sì, è veramente troppo presto, la moca starnutisce sul fuoco e di sentire nuova musica proprio non mi va.
Nel pomeriggio il telefono vibra:
“Lara hai ascoltato il nuovo album di Marra?”
“non ancora, com’è?”
“senti e poi mi dici”
Non un ottimo inizio. Metto le cuffiette e clicco sul mio pusher vestito di verde installato sul telefono.
La pace è finita.
13 pezzi, 46 minuti e 27 secondi di rumore dopo un silenzio di 3 anni.
Tanto rap, basi minimaliste e ritornelli cantati in italiano con dei sample che vanno da Ivan Graziani a Giacomo Puccini passando per i Pooh.
Niente annuncio per l’uscita del suo settimo album né operazioni di marketing o featuring, gesto sicuramente apprezzato ma che si appoggia sui numeri di un artista che l’anno scorso ha contato 140 mila spettatori per il “Marrageddon” solo tra Napoli e Milano.
Ma quanto è importante oggi nel rap creare un immaginario etichettatile come underground per risultare ancora credibili?
Negli Stati Uniti, il rap ha sempre trovato la sua voce nelle storie di degrado e resistenza, un’eredità che ha attraversato l’oceano e si è radicata anche in Italia, trasformandosi in un fenomeno mainstream nell’ultimo decennio. Oggi, però, il rap non è più solo una cronaca di difficoltà, ma sembra aver costruito un vero campo di battaglia, dove non è l’ambiente a nutrire il rap, ma il rap a nutrire l’ambiente.
Questa tensione, amplificata dai riflettori mediatici che osservano ogni mossa – per condannare o glorificare – alimenta uno scontro sempre più acceso tra la “vecchia scuola” e la “nuova”. E proprio in questo clima, vediamo gli artisti prendere posizioni sempre più nette, sia nei contenuti che nella strategia di diffusione, definendo il rap contemporaneo non solo come musica, ma come dichiarazione di intenti -anche-soprattutto, nella forma.
Bastavano le briciole
A più settimane dall’uscita, con il (prevedibile) successo che lo ha da subito accompagnato, viene spontaneo chiedersi: questo album può già essere definito un cult? Ma, ancora più importante, ha senso farsi questa domanda nel 2025?
“La pace è finita” è un’evoluzione naturale di “Persona”, una mutazione più che una semplice continuazione. È come se Marracash avesse voltato il lato del vinile: dall’elettricità di “Greta Thunberg – Lo stomaco” con Cosmo, passiamo a un’atmosfera più densa, dove non c’è più spazio per farci ballare mentre aspettiamo la fine. Qui le tracce sono fatte per scavare, non per distrarre.
Marra costruisce i suoi versi, dove ogni barra è un pezzo di un mosaico più grande. Parla di donne, genocidio, stato, differenze di classe e dipendenza dai social, intrecciando tutto con il pensiero di Nietzsche, che da “Persona” accompagna ogni sua rima come un producer invisibile.
In “Persona”, Marracash scrive il manifesto della sua identità: un gioco di incastri tra ordine e caos, proprio come nella “Nascita della tragedia” di Nietzsche. Qui, il microfono diventa lo strumento per scavare dentro se stesso, mixando confessione e introspezione.
Con “Noi, loro, gli altri”, cambia il beat. Il focus si sposta verso la dimensione sociale: la bolla esplode, e ciò che rimane è un mondo pieno di contraddizioni, che Marra racconta con lo stesso impatto di un freestyle, richiamando le riflessioni di “Così parlò Zarathustra”.
In “La pace è finita”, infine, il flow si fa consapevole. Non c’è più spazio per illusioni: Marracash affronta il nichilismo e lo supera, trovando nell’amor fati e nell’eterno ritorno la chiave per accettare tutto ciò che è stato e sarà. Ogni rima è un colpo secco, un drop che segna il momento in cui il rap è atto di resistenza e di rinascita.
“Gli sbandati hanno perso”, dice Il signor Lebowski a Drugo prima di spedirlo fuori dalla stanza.
Levo le cuffiette, con il tasto centrale saluto il mio pusher. Intanto, nella mente riaffiora la risposta di Drugo:
“Molto bene, il vecchio mi ha detto di prendere il tappeto che preferisco.”