Dave Chappelle in uno dei suoi stand-up comedy raccontò di quando durante un suo show lo convocò il dipartimento di norme e pratiche, il cui compito è decidere cosa puoi e non puoi dire in televisione.
“Avevo scritto una gag con la parola froc**, quella di norme e pratiche mi convoca, mi fa sedere e mi dice: David non esiste che tu possa usare la parola froc** sulla nostra rete.
Io non volevo fare niente di male quindi ho detto fanc*lo, la tolgo, buon pomeriggio.
Ma andandomene ho pensato: ehi una domanda veloce … perché posso dire impunemente la parola ne**o, ma non posso usare la parola froc**? Lei ha detto “perché Deve, tu non sei gay” e io le risposto “beh, non sono neanche un ne**o”
Viviamo in un’epoca dov’è lecito dire tutto e niente, la differenza la fa chi e come lo dice.
Le parole sembrano aver perso significato individuale e sembra esistano solo in base all’intento con cui le pronunci.
L’arte si è sempre elevata rispetto al conformismo sociale. La musica è stata rivoluzionaria quando ha cominciato ad uscire dagli schemi imposti dalla società, la provocazione è da sempre la fonte da dove attingono artisti e musicisti.
Ma qual è la differenza tra provocazione e offesa?
Questo dipende da dove sei nato e da come sei stato educato. Possiamo dire che il concetto di libertà di parola varia in base a luoghi e persone. In una società come la nostra, che si definisce civilizzata e democratica, si tende a seguire il concetto: “la tua libertà finisce dove comincia quella degli altri”. Che succede però se gli altri sono sempre le stesse categorie da secoli?
Ogni volta che un dibattito pubblico si accende, le dinamiche sono sempre le stesse, mutano solo nella forma. È un gioco masochista che porta solo a una gara a squadre, senza arbitro e senza punteggio. La capacità di capire come dire una cosa è unicamente un discorso di sensibilità individuale, quindi non controllabile.
La libertà nella musica
Una forma di linguaggio è la musica ed oggi giorno spesso ci si concentra nell’analizzare e criticare i testi rap.
Il genere nato a New York si è mosso, negli anni, in svariati contesti. In Italia, ad esempio, importanti sono stati i centri sociali in un primo momento e successivamente i club. Oggi il rap è diventato il nuovo Pop, adottando un linguaggio totalmente diverso.
Il contesto sociale determina il proprio linguaggio. Il rap dei centri sociali non è lo stesso che si ascolta nei club o in radio, per il suono ma soprattutto per il linguaggio. Mentre fino a 20 anni fa ci si rivolgeva ad un pubblico nettamente inferiore che la pensava al 90% come il suo artista preferito, oggi le carte in tavola cambiano.
Secondo l’ipotesi della relatività linguistica il pensiero di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla. Sulla base, anche involontaria, di questa ipotesi sono sempre di più le domande su testi e dichiarazioni degli artisti.
L’opinione pubblica, il pubblico, spesso attacca i rapper per alcune parole utilizzate nei propri testi, soprattutto quanto si citano categorie non pertinenti all’artista protagonista. Fino a che punto si può parlare di censura se la richiesta di adottare un linguaggio più inclusivo viene portata avanti non da un’autorità, ma dal popolo?
La censura storicamente è stata sempre utilizzata, da dittature e monarchie, per indirizzare l’opinione pubblica.
Il pubblico non ha potere di censura, di conseguenza le polemiche mosse dagli artisti si concentrano in una direzione sbagliata, anche per questo si è appropriata di un nuovo termine di tendenza: il “politicamente corretto”.
Citare un artista famoso, con delle uscite poco felici non significa mettere in dubbio il suo talento, se eliminando le parole discriminatorie dal testo si perdesse la provocazione del brano bisognerebbe allora ammettere che la provocazione non si trova nel contesto, ma nelle stesse parole.
Come un musicista influenza chi lo ascolta facendogli comprare merchandising, brand in collaborazione, biglietti di concerti etc, è consapevole di influenzare con quest’ultime anche chi lo ascolta, chi dice il contrario o è un bravo imprenditore o un ingenuo. Solo il secondo è potenzialmente un bravo artista.
Quindi l’arte deve educare? Perché educare richiede un determinato impegno alla sensibilità, che o è innata come sosteneva Kant, o si impara cercando di sentire quello che ti succede intorno.
Possiamo permetterci in questo periodo storico di essere politicamente scorretti?
Ma soprattutto, dire “fro**o” “ne**o” e “put**na” invece di “gay” “nero” e “stronza” ti rende davvero un provocatore che esce dagli schemi sociali o solo un ragno che s’intrappola nella sua stessa ragnatela?
Essere insensibili è diventato così tanto un clichè, che forse la sensibilità è l’unica provocazione possibile.