Cause e – probabili – conseguenze
Il mondo è in costante evoluzione e con esso ciò che lo muove. I continui sviluppi in termini economici, tecnologici e non solo modellano e sviluppano nuove pratiche, tendenze, abitudini, stili di vita. In questo ambito, il fenomeno turistico, evidentemente, non fa eccezione.
A differenza di qualche anno fa, chiunque abbia – anche limitata – disponibilità temporale ed economica, può scegliere oggi stesso di acquistare un biglietto aereo low-cost e partire a breve – se non domani – alla scoperta di una qualche città o capitale europea, rendendo il viaggio un’attività ai limiti del mainstream.
Tuttavia, se da un lato una maggior accessibilità ai siti turistici comporta, potenzialmente, un incremento della ricchezza complessiva generata in un territorio, dall’altro deve mettere in guardia rispetto alla messa in moto dei meccanismi di differenziazione del viaggio stesso: in sostanza, riprendendo la classificazione alla base della “Piramide dei bisogni” di Maslow, dal momento che l’atto del viaggio è accessibile a tutti in – più o meno – egual misura, affinchè risulti pienamente appagante è necessario che alla componente materiale del biglietto aereo e dei monumenti visitati si affianchi la componente immateriale fatta di sensazioni, emozioni, persone, esperienze.
Se a questa ricerca di appagamento della sfera sensoriale aggiungiamo, inoltre, la funzione catartica di evasione dalla realtà quotidiana del viaggio, ecco che l’immaginario forte, povero, eclettico, spontaneo, semplice, anti-moderno, geniale e caratterizzante del centro storico e, in parte, delle periferie di Napoli fornisce un assist imperdibile alla nuova generazione di turisti.
In altre parole, la presenza – con questo ritmo, non ancora per molto tempo – di un nucleo storico della città ancorato alle sue radici, differenziato rispetto agli altri quartieri e al resto del Paese, ‘vero’ e ‘autentico’, nel quale tuttora vi risiede una popolazione che conserva tradizioni – religiose, linguistiche, culinarie e così via – caratterizzanti, conferisce a Napoli un vantaggio competitivo in epoca moderna in quanto la rende appetibile alle esigenze del post-turista, più stimolato sensorialmente dalla scoperta di un luogo contraddittorio ma percepito come autentico che da un non-luogo svenduto della propria identità e incapace di porre in essere i propri elementi differenzianti, non autentico e pertanto impossibilitato a generare pieno appagamento dei nuovi bisogni emergenti.
Certo, Napoli è raggiante, viva, pulsante e verace. Ma è anche in pericolo. È in pericolo dal momento in cui gli stessi quartieri che godono di maggior appeal in ambito turistico (notoriamente, quelli del centro storico: Avvocata, Mercato, Montecalvario, San Lorenzo, Stella, Vicaria e così via) sono gli stessi in coda nei dati nazionali relativi a reddito medio pro-capite, disoccupazione e scolarizzazione e si trovano spinti ad adeguarsi a questa crescente domanda in assenza dell’attore istituzionale.
La mancata lungimiranza della classe politica ha lasciato che questi territori subissero passivamente qualsiasi tipo di iniziativa tourism-related mirata al profitto rapido e incurante delle possibili ripercussioni: ecco quindi che, in contesti disagiati, fioriscono pizzerie, friggitorie, wine bar, bassi restaurati e street art snaturata della sua funzione sociale che strizzano l’occhio al fatturato e all’incremento dei numeri fine a se stesso, mediante il cavalcamento dell’onda dello stereotipo partenopeo.
Si tratta di quell’onda che parte dal cibo e passa attraverso lo spirito della popolazione locale, spaziando dal “cuore” all’empatia, arrivando all’estro artistico e infine alla – finta – ammirazione per la capacità di adattamento in contesti difficili. Si assiste, pertanto, a una sorta di spettacolarizzazione del disagio per cui, il turista-colonizzatore afferma che a Napoli, pur tra mille difficoltà, si mangia bene, i colori e l’arte sono ovunque, il folklore la fa da padrone e le persone sono molto calorose: era ciò che si aspettava, è ciò che ha ottenuto.
Dal punto di vista estetico-sociologico, abitanti (“locals” del centro e del lungomare), abitazioni (bassi) e icone popolari (Maradona, Pino Daniele, Totò, Massimo Troisi) godono quindi, in virtù della propria unicità e appartenenza viscerale al contesto che li circonda, di un potere attrattivo enorme per qualsiasi visitatore straniero: tuttavia, nel momento in cui di questo “triangolo” si abusa, riducendo l’intera città di Napoli a questi simboli e facendo di questi simboli l’intero “core” (con accezione inglese) partenopeo, il valore storico, sociale, artistico e culturale di queste sfaccettature della città viene azzerato, perduto.
Ecco che Napoli diventa “Tutto passa”, diventa un’indefinita quantità di video e campagne pubblicitarie ripetitive, in cui si stendono i panni al sole e presunti abitanti sorridono in nome della “vita lenta”, diventa una distesa a cielo aperto di murales raffiguranti in loop le icone precedentemente menzionate, e corre sempre di più il rischio di essere riconosciuta solo per questo, venendo trascinata nuovamente nel baratro dello stereotipo.
La commercializzazione e l’”aesteticizzazione” dell’identità e del substrato culturale della città di Napoli, accanto alla gioia di chi riesce a guadagnarci, comporta soprattutto un pericolo di trasformazione in diseconomia della stessa, per cui gli stessi turisti che scelgono di venire a Napoli a causa della sua autenticità, evitano di ritornarci o di consigliarla perché ormai appiattita da una ripetizione massificata dello stesso pattern estetico-artistico che celebra ma non valorizza le personalità e le figure iconiche per la città, in una proliferazione incontrollata di attività commerciali prettamente a sfondo turistico come le pizzerie, wine bar e spritzerie precedentemente menzionate.
Tutto ciò senza considerare le problematiche principali, quelle attraversate da chi la città la vive e non è solo di passaggio, come l’aumento deciso del costo degli affitti, lo spopolamento del centro dovuto alle sfavorevoli politiche sulle locazioni a breve termine e l’ormai predominante gentrificazione della stessa fascia di territorio che dovrebbe generare ricchezza proveniente da autenticità. A quel punto, che probabilmente non è neanche troppo lontano, sarà legittimo e quasi doveroso chiedersi “Ma chi ch’ha fatto fa?”