La periferia come vetrina

La polarizzazione dell’opinione pubblica è un fenomeno strettamente legato al sistema economico in cui viviamo e al mondo che ci circonda: le logiche che rispondono alla necessità di accumulazione e di profitto, con l’avanzare degli anni, hanno spianato la strada alla scomparsa delle scale cromatiche e hanno lasciato in eredità, come uniche risposte a tutte le domande, le questioni e le problematiche, il bianco e il nero. Non esistono grigi, non esistono sfumature.

Sempre più spesso, visione d’insieme e completezza d’informazione vengono sacrificate sull’altare dello share, del click in più e delle interazioni, lasciando intendere al lettore/consumatore la necessità, da parte sua, di prendere una posizione radicale, possibilmente mortificando la “fazione” opposta, generando scontro.  In particolare, l’atteggiamento dei media nostrani nei confronti di questo processo è notoriamente di non belligeranza – per non dire di accondiscendenza: basti pensare al recente caso dell’atleta olimpionica Imane Khelif e ciò che ne è scaturito.

 A tutti gli effetti, l’organizzazione di un articolo, così come di un servizio da mandare in onda o anche di un semplice reel su Instagram, costituisce un’arma estremamente potente, l’enorme macchina dell’informazione è essa stessa un’arma estremamente potente. Per questo motivo, diffonderne una divulgazione e un utilizzo consapevoli e responsabili dovrebbe rappresentare il punto di partenza per qualsiasi addetto ai lavori in questo ambito.

Ciononostante, essendo la continua ricerca della polarizzazione un fenomeno in atto già da decenni, potenziato da un certo tipo di televisione prima e dai social media poi, con il passare del tempo non si è arrestata, anzi, si evolve e si manifesta in forme inedite, sempre più in linea con quello che è lo spirito dei tempi correnti.

Una di queste forme consiste in un’insistenza occasionale nella narrazione di eventi particolari. Si tratta di un’insistenza estremamente minuziosa e subdola, che affonda le proprie radici proprio nella ricerca della frattura, dell’occasione per creare fazioni e scontri ideologici poveri di contenuti.

La cronaca dei fatti diventa, pertanto, particolarmente ridondante nel momento in cui, all’importanza dell’avvenimento accaduto, si affianca la possibilità di soddisfare bisogni latenti dei lettori/consumatori. Il leitmotiv è, in realtà, molto semplice: restituire ai fruitori un’immagine degli avvenimenti quanto più simile possibile alle loro aspettative sullo stesso. Ecco, quindi, che una società di calcio coinvolta in problemi giudiziari fa notizia, perché restituisce come esatta l’impressione di uno sport corrotto: in questo caso, le speculazioni devono essere alimentate a un ritmo continuo, con l’obbligo per la macchina dell’informazione di fornire aggiornamenti continui sulla vicenda, carpire i segreti dei vari incontri, indagare a ritroso sugli antefatti.

Oltre alla natura stessa di questo tipo di diffusione di notizie, la problematica principale consiste nel fatto che non si limita, come descritto, a vicende sportive ed extra-sportive, ma abbraccia un ventaglio infinito di tematiche, anche – e soprattutto – delicate.  Le periferie sono una di queste. Dotate di particolare charme per tutte le classi sociali tranne che per quelle che vi risiedono, i quartieri difficili costituiscono per “gli altri”, coloro che “ce l’hanno fatta”, una finestra sui luoghi di produzione del male e del degrado, una finestra dalla quale risulta più convincente affacciarsi tramite il filtro mediatico e/o cinematografico che aprendola di scatto. Questo potenziale attrattivo è ben noto alla macchina informativa, attenta, negli anni, a dipingere un quadro che accogliesse e incentivasse questo tipo di atteggiamento da parte dell’opinione pubblica. Sostanzialmente, un evento tragico avvenuto in periferia assume maggior risonanza mediatica in quanto, oltre alla dovuta importanza rispetto al dovere di cronaca, alimenta e soddisfa l’immaginario creatosi con il tempo di quel tipo di luogo da parte dell’utente finale.

La periferia rappresenta per certi versi un’evasione dalla realtà che per chi non vi vive, un luogo da evitare, crudele e malvagio, in cui imperversano degrado e noncuranza. Paradossalmente, proprio per questa sua narrazione filtrata di luogo ai limiti dell’estremo, la periferia diventa accattivante, a tratti iconica. E più si narra di degrado, più si è incuriositi. Ecco, quindi, che per l’avvenimento accaduto a Scampia bisogna specificare se abbia avuto luogo o meno proprio all’interno delle Vele, così come al Parco Verde per Caivano: si tratta di luoghi entrati in modo così prepotente nell’immaginario collettivo da rappresentare una sineddoche per ciò che li circonda, ingurgitandone ed espellendone tutti gli aspetti positivi. L’effetto di questo tipo di disinformazione è un’immediata stigmatizzazione di questi luoghi, affascinanti nelle inquadrature noir e demonizzati nel momento in cui si rivelano per ciò che sono: periferie abbandonate dalle autorità, vetrine utilizzate principalmente allo scopo di comizi elettorali che vertono su sicurezza e investimenti.

Una macchina informativa funzionante, in perfetto stato, avrebbe come primo compito quello di raccontare le periferie nella loro totalità, impegnandosi a fondo nell’eliminazione della stigmatizzazione che le attanaglia, incanalandone il potenziale narrativo per mostrare le persone e i patrimoni materiali e immateriali che le circondano. Invece, dinnanzi a un evento che vede tre persone decedute e dodici ferite, così come rispetto a qualsiasi avvenimento tragico accaduto in un quartiere notoriamente difficile, la tentazione di restituire al lettore/consumatore uno specchio fedele dell’immaginario che lui stesso si è costruito negli anni di quelle zone riesce sistematicamente a prevalere su qualsiasi tentativo di cronaca seria, reale, non speculativa, in nome del “Poteva succedere ovunque e invece…”

Un altro pezzo importante di questo puzzle è rappresentato dalla foga nell’empatizzare con l’ultima ruota del carro di questi luoghi: gli abitanti/martiri, coloro “che non ce l’hanno fatta”, i “poverini”, le vittime di eventi che non sarebbero accaduti se solo fosse stata ascoltata – anche – la loro voce e se le stesse persone che ora provano un’empatia effimera nei loro confronti non fossero state così avide e convinte nell’ingerire senza compromessi la medicina mediatica, nella speranza di un minuscolo istante di gioia nel realizzare che quella zona non è la propria e che degrado e povertà sono in realtà distanti, lontani.

In conclusione, la periferia è stata culla e propulsore per alcune delle più importanti espressioni artistiche che hanno segnato gli ultimi trent’anni, legate alla musica (rap), al ballo (breakdance) e alla pittura (street art), nate spesso come un grido d’aiuto e allo stesso tempo di rivalsa nei confronti di un abbandono ingiustificato, arrivando, nel migliore dei casi, al mondo intero. La periferia insegna valori, stringe legami e unisce tutti sotto lo stesso, malconcio ma resistente, tetto. La periferia, nonostante una narrazione troppo spesso bistrattata e stereotipata, offre eccellenti capitali materiali e immateriali. A Scampia, al Librino, al CEP, allo ZEN, l’arte esiste ed è viva, aspetta solo di essere tutelata, così come le loro comunità. Non si tratta semplicemente di una tutela formale, cartacea, legale: si tratta di un complesso ingranaggio nel quale ognuno svolge la propria parte, macchina dell’informazione compresa. Street dreams are made of this.

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