La Municipàl a Napoli: intervista a Carmine Tundo

L’embrione de La Municipàl prende forma dodici anni fa, nel 2013, quando Carmine Tundo, insieme alla sorella Isabella, inizia a raccogliere testi scritti nel tempo per dar vita a un progetto nuovo: intimo, ironico e romantico. Brani che profumano di Adriatico, ma che già allora portavano con sé il desiderio di guardare oltre i propri confini.

Grazie al sostegno del Comune di Napoli – sezione Cultura, all’interno della rassegna Musica al Castello al Maschio Angioino – abbiamo incontrato Carmine, che ci ha raccontato con generosità la storia e le tappe fondamentali di questo percorso musicale.

Carmine, come nasce La Municipàl?

Dopo alcuni progetti precedenti, ho deciso di raccogliere testi che avessero un’urgenza più profonda rispetto a ciò che avevo fatto prima. Pubblicare il primo disco, Le nostre guerre perdute, è stato il momento in cui La Municipàl è nata ufficialmente.

“Lettera dalla provincia leccese” è ancora attuale oggi?

Direi di sì, perché le tematiche legate ad alcune zone del Sud restano immutate. Molti dei miei amici, familiari e persino le mie sorelle vivono e lavorano al Nord. È una condizione che accomuna gran parte delle province meridionali. In un periodo così buio per la politica e il sociale in Italia, quel testo mantiene ancora oggi un significato molto profondo.

Arriviamo al 2019 con Bellissimi Difetti. In particolare, il brano “Finirà tutto quanto” colpisce per la sua intensità. Da dove nasce?

È nato in un momento delicato della mia vita, sotto pressione. Un giorno ho parlato con un ragazzo immigrato che vendeva accendini: mi ha fatto rimettere in prospettiva le mie paure. Ho capito che i miei problemi, in confronto ai suoi, erano di “lieve” entità. Quel confronto mi ha aiutato a rialzarmi.

Quali sono le tappe fondamentali della band, a partire da “Via Coramari”?

Via Coramari è nata quasi per gioco, come regalo per la mia ex. Non pensavo che sarebbe uscita dalle mie quattro mura. Invece, da lì sono arrivati i primi riscontri, il primo album, i tour e tanti cambiamenti.

Nel tempo abbiamo arricchito il progetto coinvolgendo musiciste e collaboratrici diverse: Gaia RolloChiara TurcoCristiana VerardoLara Ingrosso. Ognuna ha portato nuove energie e idee, rendendo La Municipàl un vero laboratorio creativo.

Oggi siamo arrivati al nuovo album Dopo tutto questo tempo e già sto scrivendo il prossimo. Non ho fretta: voglio che i brani arrivino in maniera naturale, così come è sempre stato. L’augurio è che possano essere fonte di ispirazione per chi ci ascolta.

Ascoltando a occhi chiusi: Mosca cieca, il primo singolo di juni

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Nonostante negli ultimi decenni abbiano conquistato classifiche e festival, l’underground e il punk continuano a rappresentare una delle più vivide forme di controcultura. Nati come linguaggi sonori e visivi di rottura, hanno incarnato istanze di autonomia, critica al mainstream e resistenza creativa. Anche quando alcuni elementi estetici o sonori sono stati assimilati dall’industria pop, lo spirito originario di autenticità e indagine rimane riconoscibile. Ed è per questo che la discesa di juni negli inferi della sua sofferenza non può passare inosservata.

Sì, ma juni chi è?

Facciamo un passo avanti. Mosca cieca è il primo singolo di juni, la new entry del roster della label indipendente Factory Flaws, disponibile per l’ascolto dal 26 settembre.

Facciamo un passo indietro. Chi è juni? Ilaria Formisano, già conosciuta come Ilariuni, non è un una voce estranea al mondo della musica, anzi. La potreste ricordare come la frontgirl dei Gomma, esperienza musicale che ha già visto l’artista confrontarsi con i temi della noia e della desolazione, la cementificazione dell’entroterra campano – Caserta, dove i Gomma sono nati – e la malinconia della provincia. Agli appassionati di cinema, invece, potrebbe suonare una campanella pensando ai titoli di coda di Lovely boy, il film di Francesco Lettieri in cui viene messo in scena il percorso di risalita di un trapper obnubilato dalle droghe, in cui Ilaria Formisano interpreta una giovane promessa musicale ed è la protagonista di un assurdo videoclip che tiene incollati gli spettatori allo schermo mentre scorrono i titoli di coda.

Il film l’avevo visto in anteprima al Festival del cinema italiano di Annecy e, sorpreso, ricordo di aver esclamato in perfetto francese: afacc’ ro c*****. Di Lovely Boy la Formisano ha anche composto i testi della XXG insieme a Paco Martinelli.

Facciamo, adesso, due passi avanti. juni è la nuova persona di Ilaria Formisano «è un esperimento, una detonazione. Un progetto nato da una nausea per le forme, dal bisogno di esplorare. […] juni è un edificio costruito d’errori, invisibile agli occhi, albergato da sogni, meraviglia, magia, un orgasmo mancato. Prestigiatori. Sibille». juni sta per june, il mese in cui sono nati l’artista e il progetto, ma anche per wajuni (ragazzi in dialetto napoletano). Il nome gioca anche a riprendere il nomignolo ilariuni, con cui Ilaria è stata chiamata e conosciuta da bambina fino ad approdare nei contesti creativi.

Il singolo: mosca cieca

Oltre a un passo avanti e un passo indietro – una mano en la cintura, un movimiento sexy – si potrebbe pure fare così: cuffie alle orecchie distesi sul letto, sul divano, su un tappeto, per terra, in posizione del loto, l’importante è stare concentrati sul suono, occhi coperti e si gioca a mosca cieca. Il brano si presenta come un lamento, una richiesta d’aiuto con la voce rotta dal dolore che ripiega verso l’interno, mentre le pareti di una stanza si deformano e creano un caleidoscopio di allucinazioni.

juni sembra aver assorbito alcune lezioni dei Thru collected – con cui pure aveva collaborato nel corso dell’avventura con i Gomma, il brano è Daisy Bell, presenti anche gli specchiopaura – e delle atmosfere dell’EP di Altea, Non ti scordar di me, senza mai perdere di vista delle tonalità punk rock che la rendono sé stessa. L’alternarsi di inglese, italiano, napoletano dal pop di Liberato, fino ai gruppi più avanguardistici è un dato, e funziona per l’effetto eco prodotto dallo scontro con la densità della melodia, come un inno sacro che riverbera in una stanza vuota.

Mosca cieca è il suono della solitudine di fronte a una lunga strada di provincia, l’attimo di terrore provato rientrando a casa da soli in una grande città, l’angoscia schiacciante del mare aperto. Come si legge nel comunicato stampa «Sentirsi soli è surreale, fa entrare in uno stato magico e illusorio, terreno fertile dove magneti, apparizioni e palcoscenici si mescolano a diventare realtà». Il 21 novembre sarà disponibile nero, attimo l’album completo da cui è stato estratto il singolo. Dopo aver ascolto questo pezzo e gli altri, in anteprima, l’attesa di poterne discutere ad alta voce è troppa.

Complimenti juni e benvenuta-bentornata.


Cosa sta succedendo nella scena musicale catalana? Intervista a Enkhi x Tisset

La scena musicale catalana sta vivendo una fase di grande fermento e sperimentazione, in cui l’identità catalana si afferma con grande forza attraverso linguaggi e sonorità diverse. Due sono le forme di espressione che dominano: il catalano e il castigliano, che non si escludono a vicenda ma si intrecciano, dando vita a un panorama musicale ricco e dinamico, anzi meglio, una mezcla. Ed è così che la musica riesce a mischiare sounds contemporanei con radici culturali profonde, mantenendo ben definita l’essenza di una terra che rivendica la propria autenticità.

Il territorio catalano offre paesaggi stupendi, ideali per trascorrere belle vacanze, ma del suo sound al di fuori dei suoi confini, se ne sa ancora poco.

Nel corso del tempo ho avuto modo di confrontarmi con diversi protagonisti di questa scena: da Ceaxe, che ha scelto di cantare interamente in catalano, a Flashy Ice Cream, duo di Sabadell che ha portato la bachata a un livello superiore, reinterpretandola in chiave urbana e offrendo un’espressione ancora più verdadera della cultura catalana.

È proprio all’interno di questa bellissima cornice che si inserisce l’esperienza di Enkhi x Tisset, dal cuore puro catalano al rap senza filtri. 

Dai marciapiedi di Cerdanyola del Vallès, Enkhi x Tisset hanno trasformato la loro amicizia e la loro passione per il rap in un progetto autentico e personale. Tutto è iniziato nel 2016, senza troppe aspettative né strategie, ma solo con il desiderio di dare voce a ciò che avevano dentro. Dopo una pausa, la vita li ha riportati a incrociarsi nel 2021. Da allora la musica è tornata a scorrere con naturalezza, senza forzature.

Il loro rap nasce dall’istinto e dall’esperienza quotidiana, ma non si limita ad un genere: ogni brano è un flusso di energia che si trasforma in parole, trasparenza ed emozioni vissute. Con testi sinceri e diretti, Enkhi x Tisset raccontano ciò che conoscono davvero — le loro storie, i loro sentimenti, i dettagli della vita di tutti i giorni — riuscendo a dare forma a un linguaggio musicale che non cerca etichette, ma connessione. 

Nel vostro nuovo singolo “Ella tiene el don” trasmettete un’atmosfera fresca, estiva e nostalgica. Com’è nata l’idea di questa canzone e quale momento personale o collettivo è stata la scintilla che l’ha ispirata?

Eravamo in studio con il nostro amico e produttore CSC Beats e avevamo voglia di fare qualcosa di diverso da ciò che stavamo facendo finora, che era più rap. A un certo punto Carlos (CSC Beats) ha creato un ritmo e il campione sembrava dire “ella tiene el don” e “y baila”. In quel momento è scattata la scintilla e il ritornello è venuto fuori da solo.

Da lì, sapevamo che volevamo parlare di un colpo di fulmine estivo e, siccome entrambi ne avevamo vissuto uno, è bastato ricordarlo.

Ascoltando il brano e guardando il videoclip, sembra quasi un inno alla libertà, a quegli istanti unici in cui tutto si incastra alla perfezione. Era questa l’intenzione fin dall’inizio?

Alla fine volevamo catturare quel momento in cui vedi qualcuno per la prima volta e tutto combacia. Quel momento in cui la guardi e senti che lei ha il Dono.

Quando abbiamo pensato al video insieme a Tana Lakale ed Eureca Media (il nostro team creativo), hanno proposto quell’estetica e tutto ha finito per portare a questo: far sì che lo spettatore provi la sensazione di viverlo in prima persona.

In realtà, creare un inno alla libertà non era l’intenzione principale, ma ci piace molto questa lettura, perché è un brano d’amore e l’amore ci rende liberi.

Vi siete ritrovati nel 2021 dopo un periodo di pausa. Com’è stato quel ritorno creativo e cosa avete imparato l’uno dall’altro in questo percorso condiviso?

Era da molto che non facevamo musica insieme, la nostra ultima canzone era del 2016 quando eravamo praticamente due adolescenti. Il momento di ritrovarci, mostrarci a vicenda ciò che avevamo fatto in quegli anni e ricominciare a creare insieme è stato come se il tempo non fosse mai passato.

Il fatto che stessimo vivendo fasi simili della vita ha reso tutto ancora più naturale.

E per quanto riguarda cosa abbiamo imparato l’uno dall’altro: Enkhi ha imparato da Tisset a rimanere un po’ più con i piedi per terra, cioè che una canzone non è solo scrivere e volare, ma poi ci sono dei processi, dei tempi, un lavoro “extramusicale” per così dire, che richiede pianificazione.

E Tisset ha imparato da Enkhi che a volte bisogna salire un po’ sulle nuvole, cioè non stressarsi troppo per tutto, che restare un po’ bambini in un mondo di adulti a volte è necessario e che per fare musica bisogna prima di tutto vivere.

Ogni canzone è un’opportunità per esplorare nuove sonorità. Quali generi o influenze vi attraggono attualmente e in che direzione vi piacerebbe far evolvere il vostro sound?

Su questa roba siamo molto diversi. È vero che nei generi vicini all’hip-hop ci sentiamo entrambi molto a nostro agio, ma se lasci Enkhi libero probabilmente tornerà con una cumbia, una rumba spagnola, un flamenco o un trap più duro; e se lasci Tisset forse ti apparirà con una ballata, un pop più delicato o un trap più melodico.

Ad esempio, ora stiamo pensando di fare una canzone con ritmi di cuarteto cordobés.

In ogni brano ci incontriamo in un punto comune che a volte si avvicina di più alle influenze dell’uno o dell’altro, e non ci importa tanto verso dove andrà quel suono, ma che sia genuino e che nasca da noi.

Come vi piacerebbe che evolvesse il vostro progetto artistico nei prossimi anni, sia in Spagna che a livello internazionale?

Nel breve termine, pubblicare il nostro nuovo disco, di cui “Ella tiene el Don” fa parte, all’inizio del prossimo anno. Più avanti ci piacerebbe avere l’opportunità di suonare in quante più città possibili, in Spagna, in Italia e in qualsiasi altro Paese in cui ci sia gente che si identifichi con la nostra musica.

Se doveste scegliere un’immagine concreta, una scena, che riassuma lo spirito di “Ella tiene el don”, quale sarebbe?

La scena che meglio rappresenta lo spirito di “Ella tiene el don” è quando sei in un chiringuito sulla spiaggia e, tra tutta la gente, noti una persona che balla e all’improvviso esiste solo lei.

Quella sensazione in cui perdi persino il filo della conversazione che stavi avendo, come un palcoscenico al buio in cui l’unico riflettore illumina quella persona.

Come quando Jack vede per la prima volta Rose in Titanic.

Fra Napoli e Gaza, storie di bambini

Attraverso gli occhi dei bambini può nascere un ponte narrativo che unisce Napoli e Gaza.

Da un lato c’è Mahmoud Abu Al-Qaraya, fotografo palestinese di 29 anni. La guerra gli ha strappato quasi tutto: la casa, la possibilità di lavorare, la sua macchina fotografica — unico strumento con cui raccontava il mondo. In pochi anni Mahmoud e la sua famiglia sono stati costretti a sfollare quattro volte, vivendo ogni giorno tra bombardamenti, malattie e fame.

Dall’altro lato c’è Raffaele Annunziata, artista e fotografo napoletano conosciuto come tylerdurdan, che da oltre dieci anni intreccia immagini, musica e parole come forma di resistenza culturale. La sua ricerca artistica nasce dalla necessità di denunciare le ingiustizie e restituire centralità a ciò che rende umani.

Insieme hanno scelto di raccontare, attraverso fotografie parallele, la vita quotidiana di due bambine: una a Napoli, l’altra a Gaza. Gesti semplici e universali come fare colazione, giocare, andare a scuola o addormentarsi assumono un peso diverso quando vissuti sotto assedio, diventando simbolo di un’infanzia negata.

Between Gaza and Naples. A Childhood Story non è solo un progetto fotografico: è un atto politico e umano. È un ponte che collega due città e due storie, per ricordarci che l’infanzia è un diritto universale, non un privilegio.

Il progetto sostiene inoltre la campagna Mahmoud Loves Photography, Family & Life, un appello concreto per aiutare Mahmoud e la sua famiglia a ricostruire la propria vita e a restituirgli gli strumenti per continuare il suo lavoro di fotografo

REC Napoli: nuovo hub culturale inaugura con Disturbing Beauty

A Pozzuoli, all’interno di un ex complesso industriale, nasce il REC Club Napoli: un hub culturale indipendente che intreccia clubbing, arte e sperimentazione. Non un semplice locale, ma una casa viva di 1100 mq, pensata per accogliere comunità, linguaggi e visioni diverse. Qui la notte incontra l’arte, la musica dialoga con la ricerca e la sperimentazione diventa esperienza condivisa.

“REC è una possibilità reale di cambiamento – racconta il fondatore Rosario Aprea – un’opportunità aperta a una nuova generazione creativa.”

La data di apertura è prevista per il 20 settembre, dalle 22.00, con due eventi di respiro internazionale, l’esclusiva italiana di DisturbingBeauty, la mostra del fotografo berlinese Sven Marquardt, e il live set di Carl Craig, leggenda della techno di Detroit.

REC non è solo un club, ma un ecosistema creativo, inclusivo e internazionale: un luogo in cui la comunità napoletana incontra l’avanguardia europea e dove la notte diventa linguaggio culturale.

Napoli ha sempre avuto un’anima club. Dalle cave nella Sanità che ospitavano rave e sperimentazioni, fino ai club storici come il Golden Gate (proprio nello spazio che oggi diventa REC), la città ha saputo trasformare le notti in luoghi di libertà ed espressione collettiva.

Oggi questa tradizione può trovare nuova linfa al REC, un ponte tra il passato underground e il futuro creativo della scena partenopea.

Berlino e il ponte culturale

Se Berlino è universalmente riconosciuta come patria della club culture, Napoli non resta a guardare: le due città condividono la capacità di trasformare spazi industriali e marginali in epicentri culturali.

Proprio per questo l’inaugurazione di REC porta con sé un segno forte: l’esclusiva italiana di Disturbing Beauty di Sven Marquardt, volto iconico del Berghain e simbolo di un immaginario che unisce arte, clubbing e identità.

Classe 1962, cresciuto nella Berlino Est, Marquardt ha iniziato la sua carriera come fotografo negli anni ’80, documentando la scena underground e i mutamenti di una città divisa dal Muro. Dopo la caduta, la sua estetica dura e teatrale si è fusa con l’esplosione della techno culture berlinese, trovando un punto d’incontro nel Berghain, il club più famoso al mondo, di cui è anche il leggendario selezionatore all’ingresso.

Il suo volto tatuato è diventato un’icona globale, ma dietro la figura di “guardiano del tempio” si nasconde un artista che ha saputo trasformare in immagini l’anima cruda e disturbante di Berlino: ritratti in bianco e nero che raccontano corpi, fragilità, identità queer e la forza di una comunità che vive la notte come rito di libertà.

Con Disturbing Beauty, Marquardt porta a Napoli non solo una mostra, ma un pezzo di Berlino, aprendo un dialogo tra due città che hanno fatto della notte un linguaggio culturale. Un dialogo visivo e perturbante, che mette Napoli al centro della mappa internazionale del clubbing contemporaneo.

L’inizio di un percorso

La mostra di Sven Marquardt inaugura lo spazio espositivo di REC e apre un percorso che nei prossimi mesi porterà a Napoli nuovi protagonisti della scena contemporanea: dall’artista digitale Alessandro Malossi ai giovani talenti selezionati da VISIVA, il progetto dedicato agli emergenti del territorio che prenderà il via il 4 ottobre, con Arianna Rybcenko.

REC è un progetto giovane ma con radici profonde. Non un luogo elitario, ma una casa aperta, dove chiunque può partecipare, creare e sentire. Una piattaforma di confronto e produzione che valorizza i linguaggi contemporanei e costruisce legami autentici con il territorio.

L’apertura con Disturbing Beauty e il live esclusivo di Carl Craig non è soltanto un’inaugurazione, ma un vero manifesto: REC nasce per mettere Napoli in dialogo con il mondo, celebrando la bellezza disturbante, la musica e la libertà che continuano a rendere unica la cultura club.

Antonio Acunzo fotografa la Sanità fra musica e comunità

Antonio Acunzo è un giovane fotografo napoletano che ha scelto di raccontare il Rione Sanità attraverso le sue persone e l’occhio discreto di una macchina analogica. Il suo progetto porta un nome che incuriosisce: El Sistema. Un titolo che potrebbe evocare immaginari lontani, ma che in realtà nasce da un modello virtuoso sviluppato in Venezuela, il Sistema Abreu, capace di trasformare la musica in un potente strumento di integrazione e riscatto sociale.

Partendo da quell’esperienza, Acunzo ha rivolto il suo sguardo al cuore di Napoli e a una delle realtà più emblematiche della città: il Sanitansamble, un’orchestra di giovani cresciuti nel Rione Sanità, che attraverso la musica trova nuove possibilità di incontro, formazione e futuro. Con il suo lavoro fotografico, Antonio prova a restituire la bellezza che ha colto stando accanto a questi ragazzi: la forza della comunità, il valore delle relazioni e il potere dell’arte come linguaggio universale.

Qual è il tuo primo ricordo della fotografia? Raccontaci i tuoi inizi, quando e come ti sei avvicinato alla fotografia?

Avere una macchina fotografica o una videocamera fra le mani, fin da bambino, è stato per me un motivo di evasione da un mondo che, ancora oggi non sento mio.

Ogni volta che dovevo raggiungere il mio porto sicuro, cercavo di alienarmi e raccontare la mia immaginazione e la mia realtà attraverso un rullino, attraverso un foro che mi indirizzava nella direzione “giusta”.

I rullini mi hanno sempre accompagnato, come se fossero delle pillole che mi curavano dalle insicurezze del futuro, dai desideri di allontanarmi da qualsiasi certezza.

La fotografia ha avuto un ruolo molto importante nella mia vita. Dopo le scuole superiori decisi di affrontare un percorso di studi a Trieste, seguendo i corsi di ingegneria navale e nel frattempo cercavo di pagare tutte le spese facendo alcuni shooting in giro per l’Italia.

Non stavo bene, non ero del tutto convinto della mia scelta. Fino a quando la vita mi ha messo davanti ad un bivio. Il 16 ottobre 2021 tutto è cambiato. Sul letto di un ospedale, dopo essermi svegliato da un coma aprii gli occhi e vidi mia madre: “Voglio seguire la fotografia, ciò che amo, ciò che mi fa stare bene”

Dopo quel “momento” decisi di iscrivermi alla facoltà dello IED a Roma, per seguire il corso di Laurea in fotografia per cercare di approfondire le mie conoscenze ed il mio sapere.

Scelta più giusta e bella non avrei potuto fare. Ho incontrato professionisti e docenti grazie ai quali sono riuscito a fare un grande passo in avanti. Certo non mi sento di dire che ora sono un vero e proprio artista e fotografo, ma credo di poter raccontare alle persone ciò che davvero ho dentro, e forse un giorno riuscire ad aiutare gli altri con la mia arte.

La fotografia nasce dalla nostra immaginazione e dal nostro sguardo, non da ciò che usiamo per crearla.

Quando nasce l’idea del tuo libro? Raccontaci tutto il processo creativo.

Grazie all’attività svolta da mio padre, direttore d’orchestra che ha consacrato parte della sua carriera artistica alla rinascita culturale di intere generazioni del quartiere, ho sempre vissuto indirettamente le storie, le persone, le dinamiche.

Ho sempre creduto che quel luogo avesse qualcosa da dire, da raccontare. E allora ho deciso didare voce, o meglio, di dare un volto quelle storie attraverso la mia macchina fotografica.

L’idea nasce da un’urgenza, un colpo al cuore. Il rione Sanità non poteva essere raccontato in fretta, nè filtrato da pixel freddi, serviva la pelle viva della pellicola, il respiro lento del medio formato e del banco ottico.

Aver scattato in analogico è stato un atto d’amore e di rispetto: ogni scatto è stata una scelta, una preghiera.

Curioso è il nome, da dove nasce?

Il lavoro fotografico svolto nel quartiere Sanità, riprende e reinterpreta il modello educativo EL SISTEMA nato in Venezuela in un quartiere di Napoli con forti contrasti sociali mostrando come la musica, l’arte e la cultura possano diventare strumenti di riscatto, educazione e coesione sociale.

Il punto di svolta nella creazione del mio libro è stato il poter entrare in stretto contatto con l’orchestra giovanile Sanitansamble.

I ragazzi dell’orchesta, hanno avuto un ruolo cruciale nella creazione del libro, mi hano ospitato mi hanno portato tra le strade e nelle case della gente del Rione. Sono diventato tutt’uno con il tufo e i cuori delle persone, che non si sono mai tirate indietro nel raccontare le proprie storie.

All’inizio del progetto Sanitansamble, i giovani coinvolti nel programma, mentre attraversavano il quartiere con i loro strumenti musicali, venivano spesso derisi.

Questo atteggiamento era il riflesso di una mentalità prevalente, secondo cui l’onestà e lo studio erano considerati irrealizzabili in un contesto dove l’unico “strumento” concepito per la sopravvivenza era la violenza.

Oggi, però, questi stessi giovani dispongono di uno strumento che non è di morte, ma di vita, un mezzo di riscatto attraverso la musica.

Questa trasformazione ha influenzato il contesto della Sanità, contribuendo a ridurre la presenza dei clan che operavano nella zona, nonostante alcuni recenti episodi negativi ricordino che il percorso di cambiamento è ancora in corso. Un aspetto particolarmente significativo è osservare il processo di preparazione dei giovani in orchestra, il loro modo di suonare, di posizionarsi, e di interagire tra loro. È emozionante percepire l’armonia e la coesione che si instaurano, evidenti anche nei loro sguardi.

Il rione Sanità è cambiato molto negli ultimi 10-15 anni, entrando nelle case dei suoi abitanti come l’hai trovato? Com’è oggi la Sanità?

Napoli è una tribù che ha deciso di non arrendersi alla cosiddetta modernità e questo suo

rifiuto è sacrosanto».

Pier Paolo Pasolini

Dal 2008 ho avuto l’onore di osservare tutto il cambiamento di questo meraviglioso Rione. Ricordo perfettamente, una delle prime volte che entrai nelle vie principali del quartiere, si respirava un’aria totalmente diversa e surreale rispetto ad oggi.

Dal 2000, l’arrivo del nuovo parroco della Basilica di Santa Maria della Sanità ha segnato l’inizio di un processo di riqualificazione e valorizzazione del patrimonio storico-artistico e umano del luogo.

Una nuova vita, dunque, per l’intero Rione. Spesso Vince chi resta e sviluppa consapevolezza su come esaltare il capitale culturale attorno a sé.

Con la fotografia, influenzato da autori come Alec Soth e Dorothea Lange desidero raccontare Napoli per quello che è veramente, non per come è stata raccontata fino ad ora. Napoli, purtroppo, è stata ampiamente fotografata e omologata sotto l’egida di uno stereotipo turistico, riducendo la sua complessità e la sua vibrante autenticità. Il mio obiettivo è cambiare il modo di vedere questa città, cercando di andare oltre i luoghi comuni e di restituirle una nuova prospettiva, più intima e sincera, che ne esplori le contraddizioni, la bellezza nascosta e l’anima profonda.

Le foto sono in pellicola, un po’ in controtendenza con l’epoca digitale in cui ci troviamo, coma mai questa scelta e che risposta hai avuto dai soggetti?

Scattare in analogico mi ha permesso di entrare davvero in connessione con il luogo e le persone oltre che focalizzarmi sul momento. Obbligato a trovare la luce perfetta e il momento giusto, ero consapevole di avere a disposizione uno scatto e basta.

È stato un lavoro minuzioso, in cui però mi sono lasciato spesso trasportare dall’emozioni, in senso positivo.

Tra uno scatto e l’altro, ciò che mi porterò dentro è l’ospitalità delle persone che, pur non conoscendomi, mi hanno aperto la porta delle loro case e dei negozi come fossi uno di loro.

L’idea di conoscere nuove persone, l’dea di entare in contatto con nuove storie mi porta ad avere tanto entusiasmo e curiosità.

Il mo approccio, sia nel lavoro “Beautifully Different” legato alla disabilità, sia nel lavoro “El Sistema”, nasce da un ascolto profondo.

Prima ancora dello scatto, c’è l’incontro. Entro in punta di piedi, senza invadere. Porto con me il medio formato, una macchina lenta, che mi costringe a fermarmi, a guardare davvero, entrare in relazione. Con le persone non cerco ‘immagine perfetta, cerco la verità. Dedico tempo, creo uno spazio di fiducia e rispetto.

Non fotografo mai senza un consenso pieno, ma soprattutto, senza aver condiviso almeno unframmentodi vita con chi ho davanti. Che sia una famiglia in una casa del Rione o una persona con disabilità, il gesto fotografico arriva dopo lo scambio umano.

Questa lentezza, diventa alleata: rompe la fretta, crea intimità. Un processo che non vuole solo raccontare ma restituire dignità, umanità, complessità. Ogni scatto è un patto silenzioso: io ti vedo, ti accolgo così come sei.

Fred try again: la vapor wave esce da internet

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A questa domanda, ho dato sempre la stessa risposta: “Carino, non pazzesco come mi aspettavo”. La domanda era: “Com’è stato il concerto di Fred again..?”.

Ero destinato alla delusione e come me tanti altri. Troppi i commenti negativi arrivati nelle prime due date del tour per essere solo un fenomeno limitato di livore. Domenica 7 settembre 15mila persone si sono ritrovate davanti alla chiesa pontificia di San Francesco di Paola, a Napoli, per ascoltare Fred Jonh Philip Gibson, in arte Fred again.., minuscolo puntino in un fiume di gente, ero presente anche io. E mentre percorrevo l’A1 in direzione Caserta, rallentando in prossimità degli autovelox che non funzionano da anni, ma non si sa mai, ho cercato di trovare la migliore spiegazione possibile alle mie perplessità sul concerto. Quando sono finito in un piccolo, sempre temibile, banco di nebbia, è diventato tutto chiaro. Paradossale.

La prima cosa che salta agli occhi passeggiando nella zona di Piazza del Plebiscito a tante ore dall’inizio del concerto, era l’incredibile fortuna avuta dal dj e producer Fred again.. approdando nella città di Napoli l’anno del quarto scudetto conquistato dalla Società Calcio Napoli, celebrato con l’ormai iconico claim “Ag4in” – per maggiori informazioni chiedere a Politano che se l’è tatuato sulla tibia. Camminando sotto il sole di un’estate che resiste, e viste le temperature degli ultimi anni non è una notizia, fatico a contenere l’emozione per lo show che mi aspetta. Penso alla vita che esplode a pochi passi dal mare, perché in alcune giornate il mare bagna Napoli, anche se vengo distratto dalla conversazione tra un’anziana signora e una donna più giovane: «La vedo in forma», dice la donna, «Sto molto bene!», «E suo marito, mi dica, come sta?», «Ah no, lui è morto da vent’anni». Tenendo lo sguardo fisso nella stessa direzione, mi accorgo di due tende in plastica arancioni che riportano la scritta: “Merchandising”. E il merchandising è perfetto. Mi avvicino: vedo maglie croppate in taglio sportivo azzurre con dettagli verdi, bianchi e rossi che sfumano sulle spalle, peculiarissimi personaggi – che avendo capito il gioco – hanno acquistato divise retrò del Napoli personalizzate per l’occasione, T-shirt dal taglio classico con la scritta again stampata in loop. Per i più inclusivi erano presenti anche pezzi d’abbigliamento con la citazione dei Parisi, Marco e Giampaolo detto Jack, il duo salernitano che ha accompagnato la star nel tour italiano.

Se siete stati a uno dei concerti di Milano, Verona, Napoli e Roma e vi è sembrato di leggere, appiccicata sulle spalle del ragazzo molto alto davanti a voi – quello che porca miseria vi perseguita anche al cinema e a teatro – una scritta dai contorni sfocati, non era l’effetto delle droghe che avete eventualmente assunto o l’alcool consumato per darvi la carica; era una scelta voluta dal team marketing dell’artista. L’effetto blurred, se analizzato come sintomo, svela la sua provenienza e collocazione nel momento in cui lo si mette a sistema con i suoni ovattati delle tracce, i titoli degli album e i sample scelti per alcuni mix. La sensazione indefinita che si prova ascoltando Marea (we’ve lost dancing), trova il suo corrispettivo materiale nella rappresentazione visuale. Dal mio punto di vista, quella è la chiave per interpretare la produzione musicale del produttore inglese e per arrivare alla radice della mia delusione.

Fred again.. è un millenial degno figlio della vapor wave così come la analizza Valentina Tanni nel saggio “Exit reality. Vaporwave, backrooms, weirdcore e altri paesaggi oltre la soglia”, la prima «internet aestethic» che ha trasformato il mondo della musica soprattutto grazie ai remix di frad (leggendario il remix in chiave vapor di “Jump Up Super Star – colonna sonora di Super Mario Odissey, diventata per frad “First date”).

La vapor wave, letteralmente una nuvola di vapore, è la realtà che si dissolve in un labirinto di suggestioni, di atmosfere sognanti e di promesse non mantenute. Attraverso la ripetizione di suoni e di poche righe di testo, a volte enfatizzate dalla musica, altre volte no, l’ascoltatore viene catapultato in un altrove dall’atmosfera nostalgica e fantastica. Se prendiamo in considerazione primi tre dischi di Fred again.. (Actual life, Actual life 2 e Actual life 3) e ne analizziamo anche il paratesto – copertine fatte di selfie bruttini a cui è stato applicato un filtro monocolore rosso, giallo e blu, gli stessi titoli “Actual life” che tra parentesi riportano il periodo di composizione dell’album – i pezzi del puzzle iniziano a combaciare. È un caso che il primo album sia stato prodotto durante il lockdown? Nel periodo storico in cui l’altrove era l’unica soluzione e di fronte a un futuro incerto, il passato reso disponibile dai mezzi tecnologici diventava una possibilità concreta? Allo stesso tempo mi chiedo anche se proprio quel sentire condiviso dall’artista e dagli ascoltatori, mai come nel lockdown le esperienze di un grande numero di persone sono diventate sovrapponibili, gli abbia garantito il successo.

Ritornando a Piazza del Plebiscito, mi sono chiesto: è stata un’illusione collettiva? Probabilmente abbiamo trattato un concerto intimo, la capacità di commuovere del Tiny Desk di Fred again.. dimostra quanto la musica dei suoi primi anni (2020-2022) sia destinata ad altro, come un dj set di David Guetta. E nel disallineamento tra le nostre – le mie? – aspettative e l’esibizione si è infilata subdola la delusione. La narrazione a schermo fatta di testi emotivi, senza lettere maiuscole, con i punti esclamativi raddoppiati, evocava utilizzandolo come dispositivo di comunicazione emotiva, lo stile delle chat private.

Tutto il percorso musicale si accartocciava verso l’interno. Anche la citazione di Geolier e Piano Daniele, per quanto mi sia sembrato il solito richiamo stucchevole all’autoreferenzialità di un popolo che punta a una dimensione internazionale, ma fatica a emanciparsi da sé stesso, aveva la stessa funzione. Mi sono – ci siamo? – innamorato di Fred again.. per la sua capacità di creare spazi intermedi tra senso di solitudine profonda e tensione verso l’infinito, per la sua abilità di cullare in uno stato di sogno a occhi aperti, inafferrabile e seducente.

Tutte caratteristiche che implicano un ascolto diverso da quello del concertone. Per quanto la sua produzione musicale stia prendendo una nuova piega, la scelta di far suonare Massimo Parisi, il padre di Marco e Jack, tradisce un modo di vedere il mondo a cui l’artista non può rinunciare. 

Grazie lo stesso per essere passato a Napoli, Fred. Ti ricorderò come una splendida opportunità mancata. Come si dice: il cielo stellato sopra di me, la vapor wave dentro di Fred. 

Ceaxe: l’estate in catalano che conquista la scena urban spagnola

Dalla Catalogna con vibrazioni estive: oggi vi portiamo alla scoperta di Ceaxe, uno dei talenti più interessanti della nuova scena urban spagnola.
Giovane, solare e autentico, Ceaxe ha scelto di cantare in catalano per raccontare storie vere, radicate nella sua terra, ma capaci di parlare a chiunque, ovunque.

Il suo ultimo singolo, “AQUEST ESTIU EL PASSO AMB TU”, è una colonna sonora perfetta per l’estate: ritmi freschi, energia positiva e un’atmosfera che ti fa venir voglia di condividerla con chi ami, che siano amici, partner o famiglia.
Nella sua musica convivono la leggerezza delle giornate di sole e la profondità di emozioni genuine, scritte quando meno te lo aspetti, per ricordare a chi ascolta che non è mai solo.

In questa intervista Ceaxe ci racconta il suo legame con il catalano, il processo creativo dietro le sue canzoni, e i progetti futuri che lo porteranno a far conoscere la sua terra e la sua lingua al mondo intero.

Il tuo ultimo singolo, “AQUEST ESTIU EL PASSO AMB TU”, ha un sound molto fresco ed estivo ed ha tutte le carte in regola per diventare una hit dell’estate. Cosa ti ha ispirato a creare questo brano e quale messaggio vuoi trasmettere a chi lo ascolta?

Ho scritto questa canzone basandomi su una storia d’amore, volendo trasmettere a tutti la possibilità di ballare, saltare e rallegrarsi con l’atmosfera che ha e che possono dedicarla a qualsiasi persona, amici, familiari o i propri partner se ne hanno.

Nel corso della tua carriera, hai esplorato diversi suoni e collaborazioni. Come descriveresti l’evoluzione della tua musica dagli esordi ai tuoi lavori più recenti, come “POR PRIMERA VEZ” o “SE REVELÓ”?

Sono canzoni molto diverse, ma con lo stesso testo e due stili molto differenti. Il cambiamento è stato fatto per creare musica più commerciale e che la gente si diverta di più.

Come artista che ha scelto di cantare in catalano, come credi che le tue origini e la cultura della tua terra influenzino la tua arte e la tua musica? Ci sono elementi specifici che ti piace incorporare?

La verità è che mi piace molto cantare in catalano e mi piacerebbe portarlo in tutto il mondo per far conoscere la terra più bella che abbiamo e la cultura così bella che abbiamo qui in Catalogna ed è per questo che ho deciso di fare musica in catalano.

La musica e l’arte urbana spesso vanno di pari passo. Come vedi la connessione tra il tuo processo creativo musicale e il mondo dell’arte visiva o di strada? Ci sono artisti che ti ispirano?

Credo che la musica urbana stia cambiando sempre di più; prima era più underground e ora è tutto più commerciale, anche gli stili sono cambiati ed è un mondo enorme da scoprire perché ci sono mille generi in cui potersi esprimere.

Il processo creativo di ogni artista è unico. Potresti raccontarci un po’ come nascono le tue canzoni? C’è un luogo o un momento specifico in cui la tua ispirazione è più forte?

Le mie canzoni nascono dalla mia relazione con la mia compagna, in cui spiego come mi sento, e molte le uso anche per sfogarmi. Ho sempre usato la musica sin dall’inizio per spiegare come mi sento emotivamente e per poter trasmettere alla gente che la mia storia può anche assomigliare alla loro e non ho momenti specifici per scrivere. Scrivo veramente quando mi nasce e mi viene naturale, ho sempre detto che l’ispirazione arriva da sola, può venirti in qualsiasi momento ed è lì che mi metto a scrivere.

Guardando al futuro, cosa possiamo aspettarci da Ceaxe? Ci sono nuovi progetti, collaborazioni o suoni che non vedi l’ora di esplorare nei prossimi mesi?

Bella domanda, guardando e pensando al futuro, mi piacerebbe rompere gli schemi in Catalogna, che la gente abbia nuovi suoni e nuovi stili e soprattutto trasmettere con i miei testi a tutti quelli che mi ascoltano e che tutti possano sentirsi identificati con qualcuno di essi. Mi piacerebbe anche godermi il processo come sto facendo e potrei dire che per l’anno prossimo uscirà il mio primo album interamente in catalano, in cui ci saranno molti stili diversi e di sicuro ci sarà qualche collaborazione, per ora non lo so perché ci sto ancora lavorando. Ma la cosa che ho chiara è che renderò il catalano qualcosa di molto grande.

Sempre freschi, sempre catalani: il mondo di Flashy Ice Cream

Se in Catalogna parli di musica urban in catalano, un nome spicca su tutti: Flashy Ice Cream.
Più che un gruppo, sono una rivoluzione linguistica: hanno trasformato il catalano da lingua “di nicchia” a voce protagonista di rap, trap e reggaeton, rompendo schemi e pregiudizi.

Cresciuti con il catalano nel sangue, lo portano in ogni rima e ogni beat, senza dimenticare l’impatto visivo: per loro la musica è uno show totale, da vivere con tutti i sensi.
Tra i momenti che non dimenticheranno mai, c’è il concerto sold out alla leggendaria Sala Apolo di Barcellona — un traguardo che li spinge a osare ancora di più.

Con il motto “Nunca igual, pero siempre frescos”, continuano a innovare restando autentici, mantenendo la scena catalana giovane e vibrante. E proprio come il titolo del loro recente lavoro, “Sempre Joves”, la loro musica è destinata a restare fresca per sempre.

I Flashy Ice Cream si sono affermati come un vero punto di riferimento per la musica urbana in catalano. Come percepite il vostro ruolo nella diffusione del catalano all’interno del genere e cosa significa per voi mantenere le vostre radici linguistiche e culturali nella vostra musica?

    Prima di noi gli unici artisti che facevano musica urbana in catalano erano i P.A.W.N. GANG e noi, insieme ad altri nuovi artisti, abbiamo colmato quel vuoto in Catalogna. Abbiamo contribuito a rompere gli stigmi che gravavano sulla lingua catalana. Qualche anno fa era molto strano ascoltare rap, trap o reggaeton in catalano e ora la situazione è cambiata. Ci sentiamo responsabili e orgogliosi di questo cambiamento. Per noi, cantare e comporre in catalano è la cosa più naturale del mondo, se vivessimo a Siviglia, per esempio, lo faremmo in spagnolo, ma non è questo il caso. Noi amiamo, sentiamo, parliamo e pensiamo in catalano.

    Oltre alla musica, ci sono altre forme d’arte o espressioni culturali che vi ispirano o che considerate essenziali per il vostro sviluppo creativo come duo?

      Sì, soprattutto il cinema. Crediamo che il mondo audiovisivo sia importante per capire il nostro mondo e tutto ciò che si può esprimere con il cinema è tanto o più che con la musica, per questo diamo molta importanza a tutti i videoclip e a tutta la parte grafica che accompagna la nostra musica.

      Qual è stato l’aspetto più gratificante del vostro percorso artistico fino ad ora? C’è un momento o un’esperienza che vi ha segnato in modo particolare?

        È stato nel gennaio del 2025 alla Sala Apolo di Barcellona. Avevamo tutta la sala piena di gente che cantava tutte le canzoni e ballava con noi. Dopo aver finito il nostro ultimo album ‘Sempre Joves’, stanchi di tutto il lavoro che ha comportato, quello ci ha dato una sferzata di energia e di gratificazione per andare avanti.

        Se poteste definire l’essenza dei Flashy Ice Cream in una sola frase o concetto, quale sarebbe?

          Mai uguali, ma sempre fresh.

          Che messaggio finale vi piacerebbe lasciare ai vostri fan e a tutti coloro che sostengono la vostra musica e la vostra visione artistica?

            Siamo grati per ogni dimostrazione di affetto che ci danno, senza di loro non potremmo continuare a fare ciò che più ci piace, quindi dobbiamo tutto a loro. Nessuno scommetteva su di noi qualche anno fa e tutto ciò che abbiamo ottenuto non è poco, per quanto ti dicano il contrario, se credi veramente in qualcosa, inseguila e alla fine arriverà.

            “Neapolis” — il mito nel cuore del porto

            Un’enorme divinità marina si affaccia sul porto di Napoli, chiamando Partenope a emergere dalle acque per fondare l’antica Neapolis. È questa la visione al centro dell’opera “Neapolis” realizzata da Mr.pencil08 su un edificio industriale a Calata Porta di Massa.

            Il murale è il primo intervento del programma “Porto dei Murales”, promosso da INWARD – Osservatorio Nazionale sulla Creatività Urbana, accolto dall’Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno Centrale e sostenuto da La Reggia Designer Outlet.

            Il progetto invita a ripensare il paesaggio portuale non più solo come spazio di transito, ma come luogo di espressione culturale e rigenerazione urbana. Un nuovo modo di guardare al porto: un ponte simbolico tra mare e terra, tra passato mitico e presente urbano.

            L’opera di Mr. Pencil arriva proprio nell’anno in cui Napoli celebra i 2500 anni dalla sua fondazione, fondendo mito, storia e identità locale in una narrazione visiva potente e contemporanea.