La generazione dei buoni

Il 21° secolo è un momento storico di cambiamenti repentini e spesso confusionali, difficile da  etichettare; si potrebbe parlare di epoca dell’apparire, ma sarebbe comunque riduttivo.

Il sistema politico-economico sta mostrando le prime crepe: la riduzione di posti di lavoro a tempo indeterminato sta creando un’aria di insicurezza in prospettiva futura (in particolare per i giovani). Mentre prima c’era la sicurezza di poter creare una propria vita basandosi su un lavoro fisso ora di fisso c’è l’insicurezza di non sapere dove si sarà domani.
Dall’altro lato invece i social sostituiscono, in maniera impropria, il senso di comunità, di appartenenza  a qualcosa, dove ognuno è pronto a lanciare sentenze nascondendosi attraverso un avatar che di reale ha ben poco.

artwork: Giorgia Amato
In questa giungla, dove ciascuno è pronto a dare la caccia all’altro, non c’è che il nulla, l’unica certezza è non apparire deboli, lo si può essere, ma non apparire.
La realtà però è un’altra, ognuno di noi ha le sue debolezze e non si può indossare ogni giorno la maschera del duro. Questo lo sa bene Ghemon, cantante/rapper avellinese, sempre pronto a parlare delle sue debolezze, facendone una forza e traendone energia positiva.

”Come sto?! Male…perchè cazzo dovrei mentire
bene se chiedono gli altri, deboli qua non si può apparire”
Ghemon – Quanto Ascolto i Dischi


Dieci anni fa Ghemon, con il primo mixtape (Qualcosa Cambierà) e il suo primo album (La Rivincita Dei Buoni),  poneva le basi per quella che potrebbe essere la trama di un buon romanzo. Sono stati 10 anni in cui al romanzo si sono aggiunti tanti capitoli e paragrafi (album e mixtape/ep) tutti legati fra loro da una voglia di progresso
 che caratterizza la vita di un ragazzo pronto a mettersi in gioco, che pian piano acquista coscienza delle sue potenzialità. La storia di un ragazzo che inizia con il suo Moleskine a fare terapia da solo (Nato il 1° Aprile), di un ragazzo che ha cerchiato il suo obbiettivo, essere se stesso, fragile e lunatico, piuttosto che crearsi un personaggio inventato (La Rivincita dei Buoni). 

L’ultimo capitolo (in ordine cronologico) si chiama Mezzanotte e sa tanto di lieto fine, come  di nuovo inizio. Alla fine le sue debolezze sono diventate la sua forza e sono arrivate in 3 posizione Fimi, con un’etichetta indipendente (Macro Beats), contro un’industria musicale falsata da musica-spazzatura. Alla fine le sue ambizioni hanno vinto. 

 

Ghemon è riuscito a fare al 100% la musica di cui ha sempre parlato, diventando l’uomo che voleva essere, vincendo le debolezze, ma anche una depressione. Nel 2012, sdoganava una volta per tutte una certa intimità, dando anche poi il via libera ad altri artisti, ”perché niente è tanto personale che non si può raccontare” (Fantasmi pt 2). Affrontare certi argomenti, dopo averli vissuti, è buono e giusto, può dare forza a chi ne soffre, anziché isolarlo, come invece accade perchè deboli qui non si può apparire.
Ghemon risulta quindi essere una luce nel panorama italiano, fatto di fenomeni musicali infantili, like e followers, non solo per gli argomenti trattati, ma anche per la determinazione che lo ha portato sempre ad evolversi, diventato un esempio di chi predica bene e alla fine razzola ancora meglio. 
L’artista avellinese ha sempre avuto una visione a 360° della musica black, non facendo mai una netta distinzione fra i generi; rap, soul, blues, r&b non sono altro che cugini. Questa sua visione ha fatto si che nella sua musica Ghemon abbia tentato di unire il tutto; è stato un processo lungo, dove lavorare soprattutto su se stesso, ma alla fine ne è valsa la pena e Mezzanotte ne è la prova. Questo processo di crescita non è stato solo personale, ma anche collettivo. Ghemon non è egoista, la musica è condivisione e sono vari gli esempi in cui ne ha condivisa, pronto a fare entrare chiunque volesse nel suo mondo: Radio Fantasma, La musica di Ghemon su instagram, varie playlist su Spotify ed infine i Dj Set Raccontati. 

”La gente che mi ascolta mi assomiglia”
Ghemon – Smisurata Preghiera 


Non è una stato tutto rose e fiori, di spine ce ne sono state, i fantasmi non erano pochi; il climax c’è stato nel 2013 quando con Grey Goose Blues (brano registrato nel 2011) Ghemon annuncia di smettere di fare rap. Certe etichette stanno strette, vuole di più, sa di poter fare di più. Proprio in questo momento c’è la rivincita dei buoni, un esempio positivo da lui poi riassunto qualche anno dopo in Orchidee in vari brani (Adesso Sono Qui, Veleno, ma soprattutto Nessuno Vale Quanto Te). L’esempio concreto che volere è potere e che la realtà attuale è falsata, le cose si conquistano, da soli, con il proprio essere e non con la propria apparenza. In America dal 2015 si parla di Generazione Z, indicando i giovani d’oggi fra social ed insicurezze, figli di questa realtà; in Italia potremmo iniziare a parlare, invece, di Ghemon come capostipite di un’altra generazione: i buoni, deboli, ma forti; che potrebbe richiamare il concetto di bambini indaco, introdotto negli anni settanta.

I buoni se messi alla prova poi sono un incubo
I buoni se messi alle strette alla fine vincono” 
Ghemon – Mezzanotte

Dave Schubert: il fotografo delle sub-culture del New Jersey

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Dave Schubert è un fotografo americano, a dir poco predestinato dato che già all’età di 6 anni si ritrovò con una fotocamera in mano regalatagli dal padre.

Figlio di un padre militare e una madre legata alla generazione dei mod inglesi ha vissuto da sempre con quel sentimento anti-autoritario e di conseguenza è riuscito perfettamente a legarsi alle sub-culture americane di quel tempo, quali graffitari e skater. Quando negli anni 90 si trasferì nel New Jersey ci fu la sua consacrazione come street photographer. Fotocamera alla mano e obiettivo sempre puntato per qualsiasi occasione in quegli anni ha scattato foto della gioventù del tempo: graffitari in opera su treni, su semplici muri o tetti dei palazzi e skater. Inoltre è riuscito a catturarli anche nei momenti in cui non erano con una bomboletta in mano o una tavola sotto i piedi come ad esempio nel momento di un bacio in un locale o durante una rissa, regalando così un generoso contributo alla memoria culturale di quell’epoca.

Tutte le sue foto sono state racchiuse in un libro dal nome Graffiti Document, che potete acquistare qui. Di seguito potrete vedere una parte delle foto. Altre foto potete vederle sul profilo instagram di Dave Schubert

La rivoluzione Off White

Della collaborazione fra Nike ed Off White ne erano a conoscenza anche i muri; il web è ormai da settimane pieno di foto e l’hype è salito già alle stelle, parallelamente alle critiche promosse da chi, amante di un determinato prodotto lo ha visto stravolto.


Virgil Abloh al lavoro

Il lavoro fatto da Virgil Abloh (fondatore di Off White) è rivoluzionario, ma anche destabilizzante e si concentrata proprio sullo stravolgimento, aggiungendo, spostando elementi che caratterizzano i prodotti Nike.
La collaborazione, dal nome The Ten, è divisibile in due parti: Revealing e Ghosting.
Quest’ultima è caratterizzata da tomaie traslucide realizzate per i modelli: Nike Zoom Vaporfly, Nike Air Force 1 Low, Nike Air Max 97, Nike React Hyperdunk 2017 e Converse Chuck Taylor

In Revealing invece, dove troviamo le Air Jordan I, le Nike Air Max 9, le Nike Blazer, le Air Prest e le Air VaporMax, vi è un diverso posizionamento dello swoosh, della scritta Air e l’aggiunta della scritta ‘shoelaces’ sui lacci.

 La release del pack Revealing averrà a Settembre, negli store Nike Lab ( New York: 9-13, Londra: 18-22, Milano: 21-25 e Parigi: 26-30), mentre per Ghosting bisognerà aspettare Novembre, mese in cui probabilmente ci sarà anche una release online.

Identità nella musica: quanto è importante?

L’identità è un argomento che è da sempre protagonista della quasi totalità degli studi sulla società e ovviamente sull’individuo. È  stato, ma soprattutto è, interesse di molti capire e spiegare come l’essere umano modelli la propria essenza in base al contesto in cui si ritrova, alla persona con cui si sta relazionando e al gruppo sociale nel quale vuole iniziare a far parte. Senza andare troppo nello specifico, la differenziazione principale che si fa nei riguardi dell’identità di un individuo è quella tra la dimensione interiore di quest’ultima e quella esteriore, in altri termini tra ciò che siamo veramente e ciò che vogliamo che gli altri vedano di noi. In tutti gli esseri umani queste due sfere identitarie sono due facce della stessa medaglia che non coincidono per nulla, si tratta solo di essere più o meno capaci di farle coincidere il più possibile consapevoli che è naturalmente impossibile stabilire un esatto punto di equilibrio. Può sembrare brutto da dire e forse quelli che vantano una buona dose di sicurezza di sé e che in questo momento staranno leggendo queste righe si adireranno,  ma è così e bisogna accettarlo, nessuno si espone agli altri per ciò che veramente è, semplicemente perché l’essere umano combatte da sempre una costante battaglia di adattamento con le varie società in cui si è ritrovato nel corso della sua esistenza e quindi gli tocca: adattarsi prima e viverci poi, e per farlo necessariamente deve essere in grado di plasmare come meglio possibile il proprio essere con i canoni della società di appartenenza e in scala minore con il gruppo sociale con cui vuole relazionarsi, ecco perché in alcuni casi si parla di sopravvivenza dell’individuo nella società.

Anche nell’industria musicale, così come nella vita di tutti i giorni, l’identità assume un ruolo di peculiare importanza. Io Artista, precursore di un determinato genere, modificherò i miei comportamenti ai fini di una costruzione dell’immagine di me stesso da presentare al pubblico il più possibile vicina al genere in questione, altrimenti rischierei di peccare in credibilità; sarebbe anomalo se non assurdo vedere Michael Bublé andare in giro con collane d’oro cantando “I’m a motherfucking P-I-M-P” dopo un’esibizione alla Royal Albert Hall, no?. Negli ultimi mesi l’argomento identità ha preso ancora più piede con l’avvento di una figura misteriosa, venuta a noi sotto il nome di LIBERATO. Un feticcio musicale venerato da chiunque e, in certi casi, ancor prima per la sua capacità di navigare nell’anonimato che per la qualità della sua musica (che non mettiamo di certo in dubbio). Ma è forse qui che sorge un problema, LIBERATO non è di certo il primo artista a mantenere segreta la sua identità, si potrebbero fare tanti altri esempi. In tutti questi casi la cosa certa è che chi mantiene le redini del gioco non è di certo esente dalla costruzione dell’immagine del proprio sé da presentare al pubblico di cui sopra, anzi il lavoro richiesto è addirittura maggiore. Detto questo e premettendo che il discorso segue una via generale senza riferirsi a nessun’artista in particolare, è bene ricordarsi (a malincuore) che anche la musica una volta inserita nel vortice tumultuoso del mondo del  mercato, va automaticamente a legarsi con determinate strategie di comunicazione di massa che si basano a loro volta su altrettante strategie persuasorie per convincere il pubblico a comprare un determinato prodotto piuttosto che un altro, e l’unico metodo per non cadere in questi tranelli psicologici è quello di riuscire ad elaborare un adeguato pensiero critico da anteporre alla scelta da fare. L’identità di un’artista, dunque, è di assoluta importanza ma bisogna capire quanto essa sia effettivamente rilevante a giochi fatti prima di inciampare in conclusioni affrettate. In una relazione a due tra artista e pubblico, vista attraverso uno sguardo forse troppo romantico, ciò che dovrebbe essere rilevante per il secondo non è tanto chi è il primo, ma ciò che esso riesce a trasmettere ed è importante riuscire ad arrivare ad elaborare un giudizio finale che si basi su considerazioni concrete sulla qualità del prodotto e non sul personaggio, tutto il resto è da contorno. 

Artwork by: Giorgia Amato

Kiave: la musica è ricerca

Se si parla di Kiave si parla di Hip Hop. Quattro album, cinque ep, ultimo ”Stereokillng” di cui abbiamo parlato anche mesi fa, grazie all’originale iniziativa di Stereo Art Week. Tutto proudly indipendet, al fianco di Macro Beats.
Kiave è calabrese, rappresenta la sua terra ovunque e lo fa con la musica da 15 anni. Celebre per le sue grandi doti in freestyle, è un enciclopedia vivente, soprattutto se si parla di hiphop, come dimostrato al TED (clicca qui).
Abbiamo deciso quindi di intervistarlo, per analizzare la musica italiana oggi, e non solo.

artwork: Stefano Kermit

In Italia lo stereotipo del rapper pappone o scemo del villaggio non è stato ancora sdoganato per il grande pubblico. In radio continuano ad essere trasmessi brani orecchiabili, ma soprattutto con argomenti banali, insomma canzonette. Come mai?
La similitudine concreta è la radio. C’è gente che ascolta la musica in radio e altra che se la cerca, la compra e la supporta. Se fai musica underground non puoi pretendere di arrivare a tutti. L’underground presuppone una ricerca, nel momento in cui c’è la ricerca c’è Kiave.
Considera che per l’80% delle persone la musica è un sottofondo da mettere in radio, scelgono per te e tu ascolti passivamente quello che ti danno e ti propinano.

In passato il grande pubblico italiano ha apprezzato musica di qualità. I cantautori sono stati i pilastri di un’epoca. Negli ultimi 20 anni però c’è stato un regresso, la musica fast food ha conquistato radio, classifiche e tv. Come te lo spieghi?
Perché c’è tanta quantità. Essendoci il web c’è tanta quantità. Il web però ti aiuta tanto, un artista come me ci guadagna molto a stare lì. Dall’altra parte però succede che con il web la gente è convinta di avere l’onniscienza a portata di click, quindi non legge più, non si informa, non cerca. A quei tempi si stava peggio e quando si sta peggio c’è più bisogno di musica che parli di emozioni e di rivoluzione. Inoltre la musica era più filtrata,  c’era molto più controllo qualitativo. Il discografico prima di investire rifletteva e doveva prendere il talento che sbalordiva. Ora con internet siamo tutti talenti, il primo che ti fa 3 milioni di views con una stupidaggine viene preso. Anche gli investimenti sono cambiati, prima i dischi si vedevano, più grosso era l’investimento più grosso era il talento, ora un disco lo fai con poco.
L’underground rimane sempre però, io sono 10 anni che faccio musica, ci sono stati momenti altissimi altri bassi.
La musica ora ha un valore marginale perchè si è convinti di averla sempre a portata di mano. Quando ero piccolo non c’era internet e quel disco al mese che riuscivo a reperire lo consumavo. Ora anche io me li ascolto tutti poi decido cosa andare ad approfondire, ma oggi la gente non vuole vivere un disco, ne vuole parlare.

Con Stereo Art Week hai connesso arte e musica. Come nasce l’idea? 
Sono innanzitutto appassionato di writing, di street art, poi molti ragazzi mi hanno sempre inviato grafiche e quindi ho deciso di provare a dargli visibilità. Mi aspettavo più risonanza, ma comunque è andata bene. Molti hanno trovato lavori tramite l’iniziativa. Io poi volevo dare delle immagini alle parole. Stereokilling è un prodotto che è uscito, per il momento, solo in digitale e quindi volevo dargli una connotazione più concreta.

Come mai queste iniziative nascono da artisti indipendenti e mai da artisti più famosi, con più audience?
Perché chi ha tanta visibilità si dimentica del potere educativo della musica, ha altro a cui pensare. Se non puoi prendere la metropolitana perchè le ragazzine ti assalgono non è più hiphop, perchè l’hiphop non deve mai dimenticarsi la strada. Io non vorrei mai non poter prendere la metro; anche a me mi fermano, ma io ci parlo con la gente, altrimenti poi che dico nei testi?
Io posso permettermi di poter pensare, di poter dedicare tempo all’arte e la mia arte all’arte stessa. Se uno deve pensare alla televisione, i vestiti, i soldout se ne frega dell’arte. C’è sempre la differenza fra la pasta balilla, sempre quella, sempre uguale, che è anche una garanzia; e la pasta che fa la nonna. Noi facciamo pasta fatta in casa, a volte viene bene, altre una bomba e a volte meno bene.

Qual è la tua opinione sulle nuove sonorità dell’hip hop/rap? Artisti come Drake ad esempio sono hiphop?
Il rap è un genere e l’hiphop è una cultura. É giusto che il suono si evolva, spesso accade però che ritornino sonorità vecchie, e la gente pensa non si tratti di hiphop. Il problema è non il suono o la matrice, ma lo spirito con cui ti approcci ai contenuti e alla comunicazione e quel minimo di strada e vita vera che se si perde allora non è più hiphop. Drake mi piace, a volte ci manca quel testosterone da strada, ma comunque è uno che davanti al microfono è fortissimo. Mi piace quando magari c’è un occhio di riguardo verso lo stile, la metrica. L’autotune ha un po’ omologato le cose, ma c’è gente che lo usa in modo creativo e allora perchè no? Va benissimo.

Caneda e Cano i due alter ego di Raffaello Canu

Raffaello Canu nasce a Milano nel 1976 e in molti lo conosceranno con il nome di Caneda. Quest’ultimo è sicuramente uno dei rapper più complessi della scena. Ha sempre sperimentato e fatto di testa sua. Un’esempio possono essere In Un Mondo Perfetto, Cuore Nero o la famosa strofa in Il Ragazzo D’oro, riutilizzata anche in acustico con Ah Ah Ah.

Raffaello Canu però oltre ad essere un rapper è soprattutto Cano: un artista.
Come nella musica anche nell’arte la sperimentazione non è mai mancata. Cano è riuscito infatti sempre ad evolversi, passando dai muri alle gallerie d’arte, sempre con tecniche diverse, acquistando fama ed esponendo i suoi lavori (più all’estero che in Italia).
La sperimentazione è quindi la vera essenza di Raffaello Canu, abbiamo  deciso di contattarlo e di intervistarlo per scoprire di più sulle sue 2 passioni, apparentemente distanti. 

Cosa ti ha portato a diventare un rapper e un pittore?
Sono delle cose che mi piace fare e che mi rendono felice.

Una canzone o quadro che più ti rappresenta?
Sfumature/research & reflection 
 
C’è una connessione fra Caneda e Cano?
Stesso cuore
 
Il rap è una disciplina dell’hiphop, insieme ai graffiti. Quanto il tuo percorso accademico è stato influenzato dall’hiphop?
É quello che ho fatto in strada che ha influenzato il mio percorso accademico
 
Soffermandosi sul rap e sulla tua musica. Paragonerei l’opera di Piero Manzoni ‘’merda d’artista’’ ad alcuni tuoi brani, ultimo Masterchef.
Noto una somiglianza fra le due cose. Così come Manzoni sottolineava il feticismo dell’arte oserei dire che tu sottolinei il feticismo del rap. Che ne pensi?
Paragonarmi a Manzoni è un po troppo,sono solo degli esperimenti che studio e realizzo nel mio bunker nel cuore di una montagna svizzera
 
Spostandoci ora a Cano. Qual è il tuo colore preferito, il bianco?
Il rosso
 
Ci sono varie tappe nel tuo percorso: Sei passato dalla bomboletta al pennello e infine alla scultura e quindi all’arte figurativa e non più visiva. Come spieghi questo percorso?
È stato automatico
 
Hai esposto molto all’estero, cosa manca all’Italia?
I soldi
 
Nel mondo dei graffiti l’opinione sulla street art è molto contorta, da artista qual è la tua?
Penso che sia arte,un movimento artistico e come in ogni movimento artistico ci sono cose fighe e cose non fighe.
 
 
Chi è lo street artist che più ti affascina o che più ammiri? 
Blu

Su imcano.com tutti i suoi lavori

Gaetano De Angelis: la fotografia come racconto di un’esperienza

Gaetano De Angelis nasce a Napoli ed è un fotografo; non uno qualsiasi o  un ”semplice” street-photographer. La sua fotografia attraversa e documenta svariate realtà, dalle vele di Scampia ai vicoli di Napoli, dai club della città a shooting fotografici di artisti famosi.
Parlando proprio di artisti un soggetto molto importante delle sue foto è il rapper Luchè. Con quest’ultimo il rapporto è molto forte; sue sono le foto che troviamo nelle copertine degli album, ma non solo. Mesi fa è stata annunciata la biografia del rapper e anche lì troveremo le sue foto con le quali poter conoscere meglio il (giustamente autoproclamato) Re di Napoli. 

La sua mano o meglio l’occhio poi è presente in vari video musicali dove, insieme a Johnny Dama, immortala la musica del sovra citato Luchè nonché di Coco o Franco Ricciardi.

 
Stiamo parlando insomma di un fotografo completo, che affronta varie realtà, non facendo mancare mai la sua personalità. Abbiamo deciso quindi di intervistarlo per approfondire questo suo mondo fotografico, ricco di sfumature.

Come nasce la tua passione per la fotografia?
La mia passione per la fotografia nasce in relazione alla mia passione per l’arte in generale. É nata però perchè io ero iscritto all’università di Design industriale per la moda ad Aversa e lì eravamo costretti a dover studiare anche alcune cose di fotografia. Mi sono trovato quindi a studiare fotografia. Il mio primo approccio fotografico è nato con un libro ”Street Photography Now”.

Hai iniziato a scattare con iPhone o direttamente con una reflex?
Direttamente con reflex, perchè mia sorella ne aveva una e la usavo per l’universtià. Chiaramente tutto in automatico perchè non sapevo fare niente.
Ho abbandonato poi gli studi di Design e mi sono iscritto ad un’accademia di fotografia, avevo però già seguito alcuni workshop.

Quali sono le tue ispirazioni? Fotografo e DOP preferito?

Io non nasco come Direttore della fotografia, sfrutto la mia conoscenza fotografica per i videoclip musicali. Non appartengo al cinema, lo apprezzo, ma appartengo alla fotografia. 
Le mie ispirazioni vengono dai grandissimi. Due sono i fotografi dei quali mi sono innamorato da subito e che ancora oggi mi porto come fonti di ispirazioni, parlo di Alex Webb e Miguel Rio Branco.
Poi c’è anche Boogie che ho scoperto tramite i Co’Sang. Ero loro fan e lui li fotografò, ma ti parlo del 2006 quando non ero ancora un fotografo, oggi sono molto più informato su di lui.

Nella biografia su Facebook scriviHe continues his passion of photography using imaging such as narrative and street to capture the most significant moments of his everyday life”. Quali sono questi momenti più significativi?
I momenti significativi sono momenti personali. Sono significati per me e magari per nessun altro. Può essere qualunque cosa, si tratta di momenti che narrano di vita, può essere ad esempio anche un bambino che gioca.

 
Napoli è una città ricca di colori, ma tu ultimante sul tuo profilo Instagram Dastpics usi solo il bianco e nero riuscendo comunque a far trasparire l’essenza di un luogo o di una persona. Come mai il bianco e nero?
La fotografia ti dà la possibilità di avere sensazioni che vanno al di là dell’immagine che vedi. La potenza dell’immagine sta proprio nel poter raccontare; se riesci a raccontare bene qualcosa sei in grado di lasciare l’interpretazione a chi la sta osservando. Questa è una parte fondamentale della fotografia perchè una verità oggettiva nelle cose non c’è. Io cerco di rappresentare la mia verità, poi ognuno avrà la sua lettura e quello poi è il senso fotografico.
Il bianco e nero perchè non ha tempo. Il bianco e nero mi aiuta a staccarmi dal tempo più facilmente rispetto al colore. Con un determinato tipo di colore, o di pellicola, o di post-produzione io sto posizionando l’immagine in un contesto temporale specifico. Ovviamente anche nel bianco e nero c’è temporaneità, ma viene messa in evidenza più dal soggetto della foto che dal colore.
Logicamente ci sono foto che rimarranno per sempre di un’importanza infinita nonostante siano a colori.
Il bianco e nero sull’account Datspics è poi una scelta di coerenza stilistica da dare ad un mio profilo. Io ho un profilo personale dove pubblico le mie cose e i lavori che ho fatto. Dastpics invece è ancora più personale in quanto è l’espressione di quello che per me è la fotografia.

Che significa DAST?
E’ un acronimo di Dark Stalker. Sul mio profilo personale mi chiamo I’m Dark Stalker per due motivi: Dark Stalker è un anime giapponese, molto di nicchia, che prima mi piaceva; lavorando poi molto nei club, nella night life, mi sento un po’ uno stalker della notte.

Parlare di te come ”street photographer” è riduttivo. Fotografi nei club e fotografi artisti. Che approccio c’è nel club?
L’approccio che ho nella fotografia club è lo stesso che ho nella strada. É il racconto di un’esperienza. Io mi cimento in una situazione che conosco e cerco di raccontarla al meglio. Se domani vado in un posto che non conosco non farò mai foto belle, se vado ad esempio in un club di Londra non farà mai belle foto perché non conosco la situazione. Il mio lavoro è capire la situazione, analizzarla e poi fotografarla. Le fotografie più belle non sono mai le prime secondo me. Chi racconta qualcosa deve prima conoscerla e il fotografo deve raccontare.

Con gli artisti invece l’approccio è diverso?
Con gli artisti si, è diverso. L’artista in generale, al di là del fatto che ha una sua idea, sa che le persone che lo seguono hanno una determinata idea di lui. Il fotografo quindi deve riuscire a non distaccarsi troppo dall’idea. Il compromesso non è difficile, ma devi analizzare bene. Io cerco di fotografare in maniera più naturale possibile evitando fronzoli da moda. Negli artisti io devo riuscire a far rivedere loro stessi nella foto e creare poi un’immagine iconica, potente. Dare forza all’immagine e farli rispecchiare.

Una canzone è un’istantanea di stati d’animo” (Marracash ft. Entics – Prova a prendermi). Per te qual è il filo che lega la canzone alla fotografia?
Dice una cosa giusta Marracash. La canzone deve raccontare una stato d’animo, un’emozione di un momento. Un’instantanea se fatta bene è un racconto. La musica e la fotografia sono due mezzi di comunicazione.

Chi vorresti fotografare?
Per me già fotografare Luca è una soddisfazione! Mi affascina molto la cultura orientale e mi piacerebbe fare una fotoracconto di Tokyo. Se parliamo di artisti però mi piacerebbe fotografare i Daft Punk.

Con Associazione Undici stai mettendo le tue conoscenze alla portata di tutti. Cosa speri di trasmettere?
La fotografia, come ogni forma d’arte è anche condivisone. Riuscire a condividere la propria passione con altre persone che hanno il tuo stesso interessate è una delle cose più belle che esistono. Ho creato questa associazione insieme ad altri ragazzi per riuscire a condividere,  con chi ha il bisogno o l’interesse, la materia fotografica secondo il nostro approccio e punti di vista.

 
 
 
 
 
 
 
 
 

Humans of Naples: il retroscena dei volti di Napoli

Dopo gli esperimenti fotografici di Atget nelle strade Parigini, a New York verso la fine del XX secolo si sviluppa la Street Photography. Sempre a New York nel 2010 Brandon Stanton crea Humans Of New York, per raccontare le storie di chi vive la città.
Napoli e New York sono due città molto distanti, ma con una ”energia che ribolle dovunque” come disse Andy Warhol. A 3 anni di distanza dal progetto di Brandon Stanton Vincenzo Noletto decide di dar vita a Humans Of Naples. L’intento è sempre quello di raccontare le storie di chi vive la città, scoprire quindi lo spaccato delle persone.
Incuriositi dal progetto, accompagnati da un caffè abbiamo chiesto a Vincenzo la sua storia e la storia del progetto, per scoprire cosa spinge una persona a fotografare i volti di Napoli.

Quanti anni hai e soprattutto come nasce la passione per la fotografia?
Io ho 28 anni, sono nato il 24 Maggio 1988. La passione per la fotografia è nata nel 2009, con il primo iPhone. Lavoravo in R-Store, in Apple, e seguivo tutto quelle che succedeva nel mondo Apple. Inciampai in una notizia di un fotografo che aveva abbandonato la macchina fotografica e con la nascita di Hipstamatic iniziò a scattare con l’iPhone; questo matto si chiama Robert Herman, è New Yorkese. Spesso è a Napoli ed ho avuto anche occasione di conoscerlo e gli ho detto che è colpa sua se oggi faccio il fotografo. Effettivamente è colpa sua perchè iniziai a rendermi conto che con un telefono si potessero fare foto così belle. Io non le facevo però e quindi ho iniziato a studiare, partendo dallo strumento. Pian piano inizi a capire che c’è un mondo dietro, così ho scoperto la fotografia. L’anno zero per me è quindi il 2009, da lì ho iniziato ad informarmi, a studiare.

Qual è la tua ispirazione?
Mi ha sempre colpito riuscire a raccontare una storia intera con una foto.

Quindi per questo Humans Of Naples? Come nasce l’idea?
Per un periodo ho fatto spesso Napoli-Acerra e mi facevo 2 ore nella stazione ed ho praticamente letto tutto il reparto della Feltrinelli a Garibaldi. La sera leggevo e il giorno dopo nella pausa pranzo mettevo in pratica. Poi ho fatto tutto da me, studiando. Humans nasce come conseguenza di un mio vecchio lavoro. Per quasi 2 anni ho fatto il foto reporter per RoadTV Italia, l’esigenza di raccontare divenne bella forte e quindi nacque Humans of Naples.

La quarta domanda è ”cosa cerchi di trasmettere” con Humans, ma hai risposto già. Il discorso è sempre quello.
Tra virgolette è sempre quello, perchè poi si è evoluto. Humans nasce con l’idea di fare tutti ritratti con 4 domande che ti permettono di avere uno spaccato sulla vita della persona. Così come quando vai ad una festa e un amico ti dice da lontano le storie di tutti i presenti tu ti fai un’idea e l’abbini a quella faccia; con Humas però, non sono io a darti la mia impressione, sono loro stessi a parlare di se.
Inizialmente io volevo fare solo ritratti, ma uno che ne sa giusto un filo più di me (ride, ndr) di nome Darwin  dice che il carattere degli essere umani si forma anche in base al posto in cui vivono.
Napoli è una delle poche città in cui un napoletano di una strada è caratterizzato rispetto ad uno di un’altra strada. Napoli è l’unico posto in cui puoi distinguere fisicamente una persona e allora se io dimentico, in un progetto in cui voglio far conoscere i napoletani, qual è lo sfondo, sto sbagliando qualcosa.
Poi noi viviamo per strada
Assolutamente si. A Napoli trovi gente ovunque, anche di notte. Ho abitato a Rione Alto, all’epoca fumavo. Mi è capito alle 3 di mattina di scendere a comprare le sigarette in piena notte ed ho incontrato gente, magari scendevo con le banconote e facilmente riuscivo a cambiarle. Se hai fame poi ne trovi di posti aperti in piena notte. Nel resto d’Italia questa cosa è inconcepibile.
Se io non avessi scattato i luoghi il progetto ne avrebbe perso e quindi mi sono aperto mettendo anche i luoghi.

Che approccio c’è dietro ogni fotografia, tu vedi uno per strada lo fermi e gli chiedi una foto?
Esatto. Le persone che hanno qualcosa da dire le riconosci, subito. Almeno se hai vissuto tanto e conosci le persone. Io ho iniziato a lavorare a 14 anni, sono sempre stato quindi abituato a stare fra le persone. Avendo lavorato in Apple come venditore ho imparato a leggere le esigenze del cliente e fare questo per 4 anni ti forma. Il background lavorativo più quello personale applicato in strada fa si che vedo, leggo e fermo. Forse ho imparato, forse è una caratteristica mia o forse entrambe le cose. Vedo una persona che mi interessa e la fermo, poi magari mi sbaglio come a volte è successo.

Come risponde la gente? Raccontaci qualche aneddoto. 
Se gli dico per quale motivo scatto si fermano subito.
”Mi sono rotto le palle dello stereotipo di Napoli. Mi sono rotto le palle che lo 0.01% della popolazione napoletana debba caratterizzare il restante 99,9%”
Di aneddoti ce ne sono vari, ormai li conosco tutti, sono diventati amici miei. Tutte le persone che ho fotografato ora mi salutano per strada. C’è chi per salutarmi stava per sbattere nella macchina, chi ha  frenato all’ultimo.
Nelle foto ci sono anche alcune ex, o persone che non sono di Napoli ma che hanno scelto di vivere a Napoli. Uno degli ultimi che ho fotografato era di Bergamo e vive qui da 15 anni.

L’ultima domanda riguarda proprio Napoli. Humans Of Naples secondo noi rappresenta la vera Napoli. Le tue foto scattano la vera città, non quella degli stereotipi pizza e mandolino o quella che passa in TV, come vedi la nostra città e la sua gente?
Io ho iniziato a conoscere Napoli, da poco. Vengo dalla provincia e per me Napoli non era la mia città, poi ci sono venuto a vivere. Io ho scelto Napoli, potevo andare da qualsiasi altra parte. Ho cercato di fare questo progetto senza mai dare un giudizio alla città. Se dici qualcosa su una città con il tuo filtro rischi di dire la tua verità. Ho cercato quindi di non mettere mai il mio giudizio, ho cercato di far vedere quello che tutti vedono. Se uno si fa un giorno a Napoli vede questo. Lascio parlare le foto quindi.

Willie Peyote, dal nichilismo alla trap (intervista)

In occasione del Vesuvio’s Groove Fest abbiamo avuto il piacere di fare 4 chiacchiere con Willie Peyote, rapper torinese che stimiamo molto e che consigliamo di seguire; ascolta il suo ultimo album gratis su Spotify oppure guarda il corto Il periodo di merda più bello della mia vita !

Qui di seguito quanto detto. 

Foto di Dan Carrano

Volevamo partire dal feat con Shade nel pezzo Hit Ledger ”farete la fine di Hit Ledger, ucciso dal suo personaggio”. Quanto c’è di personaggio all’interno di Willie Peyote in Guglielmo e viceversa? 
In Guglielmo non ce n’è, io sono un normalissimo ragazzo di 30 anni. Willie Peyote in realtà non esiste. Ci ragionavo l’altro giorno, io ho avuto la fortuna di poter proiettare su questa cosa che ho creato esattamente quello che avrei voluto essere, ma nella vita reale non puoi essere Willie Peyote sul serio, non puoi dire sempre tutto con quel tipo di atteggiamento; poi io lo faccio comunque, io nella mia vita mi sono licenziato ed ho mandato a fanculo un sacco di gente davvero; però in qualche modo devi far quadrare i conti nella vita vera invece i mi sono potuto permettere di prendermi quello che avrei voluto attraverso alcuni aspetti di me e creare una proiezione. Willie Peyote esiste sul palco, nei testi, ma nella vita normale esiste Guglielmo, non so dirti se è un personaggio, è una maschera; è un personaggio come se fosse un personaggio dei fumetti. Sul palcoscenico tu hai un ruolo. Ci metto tanto di me , quello di cui parlo è la mia vita vera, però posso farlo usando la ”voce” di qualcun altro, è come un ventriloquo in qualche modo.

Riesci a scindere quindi?
Si, spesso mi capita di sentirmi dire ”quando sei sul palco sembri un’altra persona”, ma anche quando dormo sono un’altra persona, in base a quello che sto facendo sono un’altra persona. Se riesco a scindere è perché le due cose sono scisse dalla nascita. Non dico che Willie Peyote sia nato ad un certo punto, era comunque intrinseco nella mia persona. Secondo me non tutti possono avere una valvola di sfogo così. Mi ritengo fortunato non tanto perché faccio il lavoro che mi piace, viaggio molto, ecc, ma perché ho avuto la possibilità di poter sfogare e di poter diventare quello che avrei voluto essere. La spocchia che c’è nei miei testi, quel tipo di ironia, non può esserci sempre nella vita vera, ci sono dei momenti in cui per rispetto degli altri, delle situazioni e delle convenzioni (nella vita vera esistono le convenzioni) non può esserci. Con Willie posso andare al di là.

Una curiosità, qual è il tuo autore preferito?
Bukowski. Detta oggi sembra una cosa già sentita. Però io c’ho 30 anni e l’ho scoperto quando ne avevo 13/14 e all’epoca non se lo cacava nessuno.

Pensavo avresti risposto Nietzsche, dato un tuo vecchio lavoro ”Manuale del giovane nichilista”.
Ma guarda anche il discorso del Nichilismo, non ci sono così vicino. Manuale del giovane nichilista l’ho scritto perché mi davano del nichilista. Quello che intende Nietzsche non è quello che intendo io, secondo me il nichilismo è positivo, secondo lui no. Io lo intendo come rifiuto dei valori o meglio come rifiuto di alcune convenzioni. Adesso alcuni valori sono stati portati all’eccesso e privati del loro significato vero, come la famiglia e l’amore; l’amore è una cosa che ci ha totalmente abbuffat e pall che non ha più nessun significato. Il nichilismo è una risposta all’omologazione, allo svilimento dei valori, alla rinuncia dei valori perché in realtà andrebbero trattati meglio di come vengono trattati, quindi piuttosto che trattarli male meglio non trattarli proprio.

Che opinioni hai sulla street art, lo streetwear e la street culture? Segui tutto ciò?
Non saprei parlarti da esperto. Apprezzo l’arte in generale, quella che mi trasmettere qualcosa; l’arte figurativa in particolare è quella che  riesco a capire meglio, tolta la musica. Non ti saprei dire nomi di artisti, evito di dirti i soliti, tutto molto bello, ma è come dire Bukowski, è come il discorso sui valori di prima. 
Il problema di oggi, anche il discorso sul veganesimo, so che non c’entra un cazzo, non c’è niente di sbagliato, ma è tutta una moda. Non era più bello quando potevamo non avere un opinione su qualcosa? Oggi devi avere un opinione su tutto che fra l’atro non fai manco in tempo a fartela che già devi scriverla.

Scrivere sui social oggi per alcune persone ha un valore di diario pubblico.
Si, un diario pubblico da cui pretendi di avere un feedback. Il diario era figo perché era solo tuo, adesso invece quel diario lo metti in piazza e se non ricevi un feedback ti incazzi. L’importante è avere una risposta, poi se positiva ancora meglio, ”bene o male l’importante è che se ne parli”.
Sulla street art non mi posso esporre più di tanto perché non conosco bene.

Noi con ESCVPE parliamo di molta street art e qui a Napoli ce n’è tanta.
Quello l’ho notato anche solo venendo. Io potrei venire con te in giro per Napoli e prendermi bene e dirti che ne penso, ma in generale non so darti un opinione.

Parliamo anche di street wear, e la cosa che ci fa innervosire è che oggi sulla moda o sei ”swag” o sei ”swag” quando in realtà c’è una cultura dietro. 
(ride) Io non ho mai approfondito, perché mi è sempre arrivata come una ricerca dell’apparire, qualcosa proto hipster. Gli hipster ci sono sempre stati, io sono un antesignano degli hipster prima che nascessero, oggi mi stanno sul cazzo. Prima era diverso però, perché le cose te le andavi a cercare.

Secondo me una stronzata che dicono tutti è che oggi tutto è alla portata di tutti, in teoria è innegabile, ma attenzione però perché nessuno va a cercare e ne approfitta. Vale per lo streetwear, come per Bukowski. 
Perché viviamo in un mondo in cui hai talmente tante di quelle informazioni che non hai tempo e non ha più la voglia, perché col tempo la soglia di attenzione cala, per approfondire; c’è tanta roba nuova che non riesci a seguire pari passo tutto. È un peggioramento che esiste in tutti i campi, vale anche per la musica.

A proposito di musica, in questo 2016, qual è l’album che ti è piaciuto di più?
Malibu di Andersoon Paak

Io preferisco Venice ma Malibu è magnifico, senza dubbio.
Ci sono degli arrangiamenti pazzeschi. Lui oltre a cantare in una maniera incredibile con il suo timbro splendido, rappa pure bene quando rappa e quando suona la batteria è formidabile. Di italiano, penso di non aver sentito niente; forse l’ultimo di Daniele Silvestri, lui lo apprezzo molto. Per esempio nel ritornello di Quali Alibi è tecnicamente molto più bravo dell’80% dei rapper italiani

Come Nek? 
No vabbe, quella è una roba goliardica.

Sai chi ha scritto il testo? Padre P.Yo.
Ah si? Secondo me scrive anche parte dei testi di Fedez ed Ax, loro sono sempre in giro, ne hanno bisogno. Il ghostwriting esiste . Drake? Mica scrive lui tutte le sue rime, anche Dr. Dre, Puff Daddy; lui credo anche non abbia mai prodotto un beat, che li abbia sempre commissionati; Kanye mica produce lui?

Lui è un genio, un coglione-genio. TLOP mi ha un po’ deluso però. 
È completamente pazzo, e rientra nella categoria degli artisti troppo esagerati, di quelli cercano sempre la trovata ad effetto; poi vabbè è un esaltato di se.  L’ultimo album va ascoltato un pò di volte, come Yeezus. Io però non so se tutto sommato la roba ti piace perché bella sul serio o se in realtà a forza di ascoltarlo un pò perché è Kanye te lo fai piacere e quelle trovate le ritieni poi geniali ma se le facessi io la gente le riterrebbe stronzate.

Ritornando al ghostwriting e ai beat commissionati, di fatto è vero, oggi anche nell’arte in generale è così, è triste, ma spesso uno ha l’idea e poi commissiona
Si, ma comunque la differenza le hanno sempre fatte le idee. Oggi viviamo in un mondo in cui ci sono quelli bravi a far le cose e quelli con le idee che ti dicono cosa fare.

Che ti aspetti da questa sera? Che pensi di Napoli?
Non mi aspetto mai niente, perché sono abituato che così nella peggiore delle ipotesi se va male non mi ero aspettato niente, nella migliore va meglio di come mi aspettavo. Quindi tutto quello che arriva è buono. A Napoli non ci sono mai stato, quindi non posso esprimermi, era da molto tempo che volevo venire qua però. Venendo ci ragionavo con gli altri, in macchina abbiamo messo Pino Daniele, ed io in tutti i viaggi che facevo con i miei da piccolo ascoltavo lui, poi da più giovane i 99 posse, che mi hanno molto influenzato.

La scena attuale rap napoletana non la segui vero? Anche qui si sta sviluppando il filone Trap con Enzo Dong e Vale Lambo. 
Conosco poco, ma seguo poco la scena rap italiana in generale. Enzo Dong l’ho sentito nominare. Sulla Trap dico che se la fai bene la fai bene, però dopo un po’ mi rompe perché è obbiettivamente sempre la stessa.

Sta nascendo anche un sotto genere trap-conscoius. 
Non lo conosco abbastanza però a Torino ci sono i Milizia Post Atomica che fanno pezzi conscious su beat molto molto Trap il più delle volte. La direzione oggi è quella comunque.

È probabilmente solo qualcosa di passeggero.
Può darsi, se segui il discorso che facevamo prima, essendo una moda è passeggera. Adesso la Trap non è neanche più troppo figa, c’è il Drill, il Grime. Ma tanto adesso ognuno si inventa una cosa, Tedua (senza nulla togliergli, non lo conosco) rappa fuori tempo ma “è drill”. Il punto è che se tu andassi ad un altro tempo che esiste e che sei in grado di riprodurlo sempre uguale allora si; in Kashmir dei Led Zeppelin la chitarra e la batteria vanno a 2 tempi diversi ma si rincontrano, questa cosa esiste. Andare fuori tempo è un’altra cosa che esce un pò dal contesto della musica, poi oh punti di vista.

Forse esagero ma credo che come nella musica in generale esistano i vari generi, adesso nell’Hiphop (dato che lo possono fare tutti, so che sto generalizzando) stanno nascendo vari sottogeneri ed a volte penso che la Trap sia un pò il Punk dell’Hiphop. 
Per certi versi si, in alcuni casi c’hai ragione, però il Punk a me piaceva la Trap no, poi dipende. La Trap dovrebbe avere quella potenza di rottura, perché è di una ignoranza clamorosa, volutamente. Io riesco ad ascoltare Young Thug, però anche li poca roba. Scarpe da Pusher di Jamil mi è piaciuta un sacco; Sfera Ebbasta è forte, anche Ghali è forte con Willy Willy ha avuto una bella idea, è comunque gente che sa quello che fa. 

Perché Banksy ha scelto Napoli?

Per Banksy sono state spese fiumi e fiumi di parole. Nonostante ciò non ci fermiamo e probabilmente non ci stancheremo mai di raccontare le gesta di uno degli eroi della street art.

In quest’articolo proveremo a rispondere ad una delle domande che, ogni amante della street art, a maggior ragione se Napoletano, pensiamo debba farsi ad un certo punto della sua vita. “Perché Banksy ha scelto Napoli?” Perché un’artista di livello mondiale, nel momento in cui decide di voler lasciare il segno anche in Italia sceglie di venire proprio a Napoli e non a Roma o a Milano o a Firenze?

L’artista di Bristol, ha lasciato il segno ben due volte nella città partenopea, con la Madonna con la pistola in piazza Gerolomini e quella che si presume sia una reinterpretazione dell’estasi della beata Ludovica Albertoni del Bernini rappresentata con in mano un panino e patatine del McDonald’s, simboli del consumismo. Il secondo stencil, nel 2010, purtroppo, è stato completamente ricoperto da un writer Napoletano e per questo non è più visibile, detto questo, col senno di poi Banksy forse non avrebbe scelto Napoli e adesso la domanda in questione sarebbe:”Banksy ma perché hai scelto Napoli? Guarda come trattano le tue opere.”

Ci piace pensare però che tutto ciò sia stata opera solo di un singolo individuo affetto da elevato egocentrismo (e speriamo Banksy sia d’accordo), oppure potremmo utilizzare la classica scusa che si usa in questi casi, cioè che dal momento in cui fai un’opera di street art può succedergli qualsiasi cosa ma nessuno ne è responsabile e quindi ora possiamo tranquillamente continuare a provare a rispondere alla domanda. Farlo non è stato molto semplice, ma nemmeno troppo complicato, abbiamo cercato di immedesimarci in lui e di immaginarlo come un semplice turista straniero, appassionato di street art, che viene a Napoli per la prima volta e a tutto questo aggiungerci “solo” il fatto che dalla sua parte possiede capacità tecniche e un pizzico di genialità, quindi qual è stata la molla che ha scaturito la voglia di lasciare un segno, di marchiare questa città?

Quasi sicuramente sarà stato il fatto che nel momento in cui si mette piede a Napoli, che sia per la prima o per la decima o per la centesima volta, si inizia inevitabilmente e piacevolmente ad essere circondati da arte in tutte le sue connotazioni, e in qualsiasi parte capita di trovarti e in qualsiasi persona incontri si può inciampare anche nella più minima forma d’arte, dalla vecchietta seduta fuori al suo vascio nel quartiere che racconta storielle popolari all’impetuosità del Castel dell’Ovo o del Maschio Angioino. Quando Banksy ha messo per la prima volta piede in questa città è stato travolto dal vento caldo fatto d’arte innalzato dalle pennellate di Cyop & Kaf, di Zolta e di Diego Miedo e alimentato dagli spray di crew storiche come la KTM, per citarne alcuni.

Tra street art e Napoli c’è un binomio inscindibile.
La street art sta a Napoli come la pizza sta a Napoli, come il caffè, come il mare, il sole, il vesuvio e il mandolino come il Napoli e Zio Pino stanno a Napoli e Banksy lo ha capito, prima di noi stessi cittadini. Insomma, i muri parlano, raccontano storie bisogna solo saper ascoltare. Banksy è stato in grado di farlo e il suo dovere da street artist si è fatto sentire e lui ha risposto, un pò come quando i supereroi intervengono in aiuto della legge per sconfiggere i nemici egli è intervenuto aggiungendo pagine importanti al capitolo street art del libro della storia Napoletana. Ecco perché, secondo noi Banksy ha scelto Napoli.
 
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Streetbook: Parthenope. 📷: @nancyydowns

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