Sangue Siciliano è un disco che non si capisce a metà. Ogni barra parla la lingua di chi è cresciuto in un posto preciso, e ha deciso di farne il centro della propria narrazione, non un semplice sfondo. Catania, le strade, i codici e le contraddizioni non sono elementi decorativi: sono la trama. E la voce dell’Elfo – senza pretese di riscatto poetico – è lo strumento con cui scava.
Non c’è feticismo del disagio, non c’è estetica da streetwear. C’è una storia, un’area geografica, una visione. Ed è quella che abbiamo provato a farci raccontare.
Quando hai scritto “Sangue Siciliano”, stavi cercando di chiudere un cerchio o di aprirne uno nuovo?
Non volevo chiudere un cerchio, ma aprirne un nuovo. Questo sarebbe una sorta di L’Elfo 2.0. Ed è soltanto l’inizio.
C’è una parola che senti di aver usato troppo, o troppo poco. Se si, qual è?
La parola che ho usato troppo sicuramente è Catania, ma pensandoci, il disco parla molto di me, della mia vita e della città. Quindi va bene così.
Qual è il tuo guilty pleasure musicale?
Ti direi nessuno, perché sono del parere che anche le canzoni che per tanti possono sembrare imbarazzanti, possono dare qualcosa, un momento di svago. Quindi nessuna vergogna per nessun artista.
In questo momento, che tipo di artista stai cercando di diventare?
Direi un artista che sappia sfruttare appieno il proprio talento.
Qual è la tua parola preferita nel tuo dialetto?
La mia parola preferita credo sia “Mbare”, che per me è di un uso quotidiano spropositato e fa parte del linguaggio tra fratelli, tra amici.
Il sangue è qualcosa che si eredita, o che si costruisce vivendo?
Io credo entrambe le cose, perché in un modo o in un altro il sangue sì, ti può dare tanto carattere per quanto riguarda la tua storia, però è anche vero che crescere in un posto può fare tanto, quindi entrambe le cose sono importanti per il proprio sangue.
Qual è la cosa più difficile da dire in una traccia, per te, oggi?
Anni fa avrei risposto in maniera diversa, oggi invece non ho nessuna difficoltà nell’aprirmi, perché sono del parere che qualunque tipo di emozione possa diventare una canzone e qualcosa di importante.
Se la tua vita fosse una canzone non tua, quale sarebbe il titolo?
I giardini di marzo di Lucio Battisti.
Oggi il rap è anche una questione di estetica, visione, messaggio. Cosa significa per te costruire un immaginario che abbia coerenza, ma non diventi una gabbia?
Personalmente, il mio immaginario non è mai stata una gabbia, per il semplice fatto che sia fedelissimo alla vita che ho vissuto, quindi per evitare che l’immaginario di un artista diventi una gabbia, quell’artista dev’essere il più vicino possibile alla vita reale.
In “Sangue Siciliano” c’è una tensione costante tra l’istinto e la lucidità. Ti capita mai di scrivere qualcosa e poi censurarti? Per paura, per rispetto, per stanchezza.
Mi reputo molto fortunato a fare un genere che non si pone nessun problema per quanto riguarda la censura e il linguaggio pulito, quindi no, ho scritto cose molto forti e non mi sono mai pentito perché sono sempre state cose che sentivo di scrivere e di comunicare.
Se potessi organizzare un festival musicale con qualsiasi artista (vivente o non), chi sarebbe il/la headliner?
Sicuramente Method Man ed Eminem, perché entrambi sono Rapper con la R maiuscola e fanno esattamente quello che io cerco di fare in Italia. Ci sono artisti che provano a somigliare a qualcosa. Altri che provano a raccontare quello che sono. Dentro c’è la strada, sì, ma c’è anche il mestiere: il controllo di chi non si sdradica.