il brand sportivo Converse nasce agli inizi del 1900, negli Stati Uniti d’America e a partire dagli anni 60 iniziano a cavalcare l’onda del successo soprattutto grazie ad un immaginario rock. Nel 2003 poi il brand viene acquistato dalla multinazionale Nike. Siamo nella metà degli anni 20 però quando vengono presentate le ”All Star Chuck Taylor”, ovvero un modello ideato dall’omonimo cestista Chuck Taylor. Dal mondo del basket però Converso poi si è allontanata, anche perché surclassata dalla concorrenza, ed ha messo piede nel rock.
L’immaginario rock e le All Star hanno fatto per anni la fortuna del brand, ma allo stesso tempo sono state una maledizione che lo hanno rinchiuso in un recinto, dal quale solo oggi è riuscito ad uscire. Se Nike (ad esempio) è riuscita a rendere iconiche vari modelli, associandoli a vari contesti ed immaginari lo stesso non è stato per Converse, il quale ha investito in vari settori senza mai riuscire a competere realmente.
Nell’ultimo anno e mezzo però sembra esserci stato un cambio di rotta, una ventata di idee nuove e strategie di marketing pronte a conquistare nuovo pubblico, nuove realtà. Tyler, The Creatorè stata probabilmente la scelta vincente. Grazie alla collaborazione con il rapper, sottratta a Vans, nuova attenzione si è iniziata a concentrare sul brand. Niente Chuck Taylor questa volta, basta, meglio puntare su altro: One Star, modello della linea skate che però non è mai riuscito a diventare popolare fino ad oggi. Dopo Tyler sono state annunciate nuove collaborazioni, Yung Lean, Brockhampton ed Asap Nast su tutte!
Questo restyling tra l’altro è avvenuto anche, in piccolo, in Italia con Salmo e Liberato. Il primo è infatti il nuovo testimonial in un video del brand ( per l’occasione però chuck taylor ai piedi), il secondo invece indossa nei suoi video delle One Star tutte sue, probabilmente un costum.
A proposito di nuove idee e strategia di marketing Converse ha aperto a Londra, per il 16 e il 17 febbraio, il One Star Hotel: un luogo dove dedicarsi all’amore per il brand e lo streetwear, ma anche un occasione per presentare i nuovi modelli One Star (alcuni citati sopra).
Fin ora sempre promettere bene questa ventata di idee nuove, chissà che da una maledizione non se ne passi ad un’altra però.
Un bambino cattivo, nato e cresciuto a Napoli, nel quartiere San Gaetano per essere precisi, fra i pionieri dell’hiphop partenopeo e italiano, in due parole: Speaker Cenzou. Nel suo curriculum incontriamo La Famiglia, 99 posse e Sangue Mostro oltre alla sua carriera da solista. Oggi, in questa fine del 2017 ci aggiungiamo anche un libro: Ammostro.
Con quest’ultimo attraverso le parole di Cenzou scopriamo gli ultimi 40 anni di Napoli, fra volti, incontri e pensieri legati alla tradizione partenopea più genuina alla storia dell’Hip Hop italiano. A tal proposito lo abbiamo intervistato, per parlare della Napoli e della musica odierna.
Cosa ti ha spinto a scrivere di te, non in una canzone ma in un libro?
Per fare ciò che avevo in mente probabilmente ci sarebbero voluti 4 dischi. Ho pensato che il libro fosse la forma più fruibile per lasciare una testimonianza a chi non ha vissuto un’era fondamentale per la formazione del nostro presente. A tal proposito spesso si tende a fare revisionismo o a stravolgere gli eventi a proprio piacimento, prima che accadesse qualcosa del genere ritenevo opportuno scrivere un libro, auto-produrlo ed auto-distribuirlo facendolo girare quasi come un porta a porta de La Folletto. Ho voluto fare qualcosa di tangibile, per chi mi segue e per chi è incuriosito dalla mia storia.
Con le tue parole si parla di Napoli, di quanto accaduto in questi ultimi 40 anni. Oggi, la nostra città da un punto di vista turistico, ma direi anche culturale è in crescita. Con la musica oggi come stiamo messi?
Ci sono un sacco di cose bellissime ed un sacco di cose meno belle, esattamente come poteva essere la scena di 10 o 20 anni fa. Fondamentalmente io non sono mai stato una persona chiusa alle novità o alle ricerche. Penso che la grande divisione sia fra musica bella e musica brutta. A differenza di quando mi sono formato io come artista e come persona, in cui c’erano due poli: il ”mainstream” con chi lo inseguiva e una musica più di ricerca con una sua dignità ed il suo bacino di utenza, oggi, anche per gli effetti della globalizzazione, questi due poli si sono annullati ed esistono tante realtà che si fanno spazio scimmiottando le tendenze moderne. Per la ricerca artistica è una cosa negativa.
So che sei un grande appassionato di Star Wars; nel nuovo film si nota una differenza generazionale, muore il vecchio e arriva il nuovo.
Sui social ti sei espresso a favore della trap, in generale. Da appassionato e da rapper come ti spieghi però il passaggio da una ”volontà di presenza e di testimoniare” del rap all’apparenza ed alla frivolezza di oggi ?
La vacuità che si può trovare nel 80% delle liriche attuali non è nient’altro che lo specchio della vacuità della società moderna.
La maggior parte delle persone oggi passa tutto il giorno avanti ad uno schermo, annullando interessi e curiosità, di conseguenza queste persone esprimono frivolezze, è consequenziale.
Fortunatamente è maggioritaria ma non è assoluta, ci sono ancora ”nuovi jedi” che magari fanno commistioni con le sonorità moderna ma con una attitudine coscienziosa, sensibile e responsabile.
Chi sono per te i nuovi Jedi ?
A Napoli vedo Pepp Oh, Oyoshe e Dope One.
Nel film i maestri assoluti tornano come fantasmi della forza dando indicazioni a chi è rimasto. In un certo modo se hai lasciato un buon operato come maestro quest’ultimo rimarrà sempre.
Tornado a te invece.
Sei in un NewSlanc, ora la biografia e presto il CD bambino cattivo 2.0, da fuori avverto la ‘’fotta’’ di un emergente.
L’approccio è proprio questo e per me bisogna averlo soprattutto nella vita. Nessuno della mia generazione, credo, avrebbe mai fatto canzoni come Interplayo sulla base di Stranger Things, essendo in mentalità autoreferenzialiste. Lo dissi in NAnthem io ogni volta che torno sono un’esordiente. Questa è l’attitudine, in primis per me stesso, garantendomi una sorta di onestà intellettuale e soprattutto perchè penso che il mondo vada a avanti ed è sempre quello che farò fin quando avrò voglio e fotta !
Restando sul rap credi che oggi, dopo le esperienze di Rocco Hunt e Clementino a Sanremo più altre varie esperienze mainstream, il rap sia stato sdoganato o invece i vari stereotipi siano ben saldi ?
Non ancora. C’è ancora molta confusione e questa nuova ondata di gente che si distingue in maniera così netta dall’hip hop, per chi non ha una cultura definita, più che mettere dei puntini sulle ”i” aggiunge confusione al calderone generale.
Inoltre in Italia, ahimè, solo i numeri danno legittimità agli artisti e non essendoci una cultura così grossa da dare i giusti meriti ai pionieri ed ai punti cardini di questa cultura, salvo certi casi, non si sdogana un genere ma piuttosto un’icona, un atteggiamento o un costume.
In passato il nostro paese ha apprezzato musica di qualità; Pino Daniele o De Andrè sono i pilasti della cultura italiana contemporanea. Oggi però la musica fast food prende il sopravvento, come te lo spieghi ?
É un discorso che non si discosta molto dalla seconda domanda. Prima alle radio, ai network o ad esempio alla Rai, faceva gioco avere un certo numero di cultura, essendo stato questo paese in grado di esprimerla.
Oggi ci sono sicuramente personaggi che potrebbero prendere svolte culturali più ampie. Non possiamo sapere se Rkomi sarà intellegibile fra 40/50 anni.
Va anche detto che i poeti che oggi apprezziamo non avevano la visibilità e lo spazio giusto, le discografiche non gli davano gli out out e soprattutto non erano in un meccanismo di mangiarsi e cacarsi in loop proprio come il meccanismo fast food.
Paradossalmente uno che si è discostato da certi canoni e può essere definito già un poeta è Caparezza. Lui ha costruito il suo successo attraverso mosse studiate, si è consacrato ed ha scelto di essere un artista con i suoi tempi e la sua dignità. Si è discostato più lui che chi fa trap, senza dover dire agli altri ”io non sono questo”.
Daniele Lepore è giovane fotografo partenopeo le cui foto si basano particolarmente su due linee guida: il richiamo al vintage e l’attenzione per i dettagli!
La sua è una fotografia facilmente riconoscibile, grazie alle atmosfere inusuali che riesce a creare, atmosfere che trasudano di dettagli nonostante la semplicità delle scene. Il centro di quest’ultime sono le donne, ma nonostante ciò attraverso ognuna di esse riesce a creare storytelling sempre differenti ambientati in luoghi fuori dal tempo. Lo abbiamo intervistato, per entrare nel suo mondo e scoprirne di più.
Come nasce la tua passione per la fotografia? Da piccolo non ho mai saputo che fare da grande, però sapevo che amavo disegnare. Sono sempre stato un po’ legato all’arte, essendo secondo genito sono sempre stato quello un po’ più estroverso. A 23 anni poi mi sono ritrovato laureato in scienze politiche, influenzato da mio fratello e dalla mia famiglia e per festeggiare sono andato in India con dei miei amici reporter. Grazie a questo viaggio è nata la mia passione per la fotografia, grazie a questo viaggio ho trovato me stesso e la mia strada.
Lo stile delle tue foto è parecchio riconoscibile, nonostante tu abbia vari soggetti. Cosa e chi preferisci fotografare? Ho fotografato ad eventi, in locali, poi ho scelto di dedicarmi a situazioni di vita quotidiana. Mi piace scattare le persone, per la precisione ciò che più amo: le donne. Le amo proprio come bellezza in generale; fisicamente l’uomo è brutto. Cerco però sempre soggetti particolari con una bellezza ‘’border line’’, ho fotografato anche uomini ma sempre molto particolari, magari un filo rock e soprattutto vintage.
A proposito di vintage e di donne. Gli scenari delle tue fotografie non sono contemporanei. Come mai, i giorni odierni cos’hanno che non va? Sono odierni; solo fra vent’anni ci renderemo conto di questi giorni. Io ho vissuto a pieno gli anni 90 e i primi del 2000, mentre li vivevo non capivo cosa stesse accadendo. Ora ti posso dire che mi piace rivivere quegli anni attraverso le foto, ma anche andare più indietro, magari negli anni ’70.
Il mio primo profilo instagram si chiamava ‘’The Vintage’’; scatto in Polaroid ed usa e getta, guido una moto d’epoca, per me il vintage è uno stile di vita, un gusto retro che trovo in tutto quello che faccio.
In queste tue foto noto una ricerca della bellezza, soprattutto nei particolari. Cos’è per te la bellezza? Per me esiste una bellezza che piace a molti, ed una bellezza più particolare che intriga solo pochi. I miei soggetti sono ragazze che trasmettono qualcosa, una ragazza che può essere identificata con uno stile di vita ed una attitudine particolare: after party, rock oppure una donna sfatta e bella nella sua semplicità. Spesso creo situazioni in cui il soggetto si è appena svegliato ad esempio. La ragazza che a me piace fotografare è una ragazza semplice con un dettaglio che possa affascinare e porla in un contesto.
A chi ti ispiri? Non ho un fotografo in particolare come fonte di ispirazione, significherebbe copiarlo. Tutte le foto che faccio sono frutto dei film che ho visto, dei viaggi, e di tutti i fotografi che ho apprezzato e non apprezzato. Io mi collego molto al cinema Nouvelle Vague di Godard e Truffaut, ma anche ad altri come Quentin Tarantino o ad Helmut Newton. Quest’ultimo applicava il suo stile anche in ambito lavorativo ed è quello che faccio io.
Stai tenendo dei corsi di fotografia, qual è la caratteristica più importante per essere un buon fotografo, secondo te ? Non bisogna fare il fotografo, ma esserlo. Non voglio fare il romantico, ma io credo che parta da dentro ed è inspiegabile. Io consiglio sempre di osservare qualsiasi cosa non preoccupandosi degli schemi e delle regole per fotografare a proprio modo. Di sicuro bisogna essere ottimi osservatori, in quanto tutto può essere fotografato. Non è importante il mezzo, ma le idee. Non credo nella foto perfetta, ma nel momento perfetto da fotografare.
Le foto che non hai ancora scattato? Sicuramente i viaggi che non ho fatto ancora. Per ora ho iniziato un progetto, si chiama The Rolling Youth, ma non l’ho ancora terminato e non so quanto terminerà. Meglio non porsi mai questa domanda, ormai vediamo foto ovunque senza goderci i momenti. Le foto che non ho mai scattato sono quelle che non scatterò mai ovvero gli attimi di vita scattati nella mia mente.
Napoli, si sa, vive anche e soprattutto di notte. La movida napoletana è tra le più focose e movimentate di Italia e ogni weekend ormai c’è l’imbarazzo della scelta su quale serata, locale o zona frequentare. Nel tessuto urbano ogni anno c’è chi prontamente propone nuove idee e concetti dando vita sempre a nuovi party cercando ognuno di differenziarsi a modo proprio. Questo è il caso dei ragazzi di Venus, un’organizzazione che quest’anno ha deciso di cambiare stile proponendo una serie di serate completamente ispirate alla vaporwave; una corrente musicale e estetica che prende ispirazione dagli anni ’90 e dagli elementi che facevano parte di quell’epoca. Il loro obiettivo, come ci hanno spiegato, è quello di portare a Napoli un concetto che prima era sconosciuto sensibilizzando le persone verso una cultura diversa da tutto il resto. In occasione della loro ultima festa al Moses Club di Napoli, che ha avuto come tema principale la logomania, abbiamo scambiato due chiacchiere con due degli organizzatori, Pi Di Mallio e Vittorio Ruggiero, per capire di più sulla loro realtà ma soprattutto per sapere cosa significa essere vapor.
Artwork: Stefano Kermit
La vostra organizzazione si chiama “Venus” che tradotto significa “Venere”, la dea della passione e della bellezza, da cosa nasce la scelta di questo nome?
Pidi: La statua di Venere è anche un simbolo vaporwave. Generalmente la scelta del nome Venus si sposa con la nostra idea di voluptas, di persuasione; si tratta della nostra voglia di voler conquistare il pubblico trasmettendo un senso di desiderio e piacere.
In cosa, fondamentalmente, possiamo riscontrare questa passione nelle vostre feste?
Pidi: Dal clima che si respira, la gente che ritorna lo fa perché è stata bene. Noi diamo tutte le possibilità per far sì che ciò accada Vittorio: La passione deriva anche dalla nostra intenzione di proporre un concetto a 360°, sia dal punto di vista musicale sia di grafica ma anche riferito all’allestimento del locale. Cerchiamo di essere familiari, dando tutto noi stessi e pretendendo poco, il nostro obiettivo è che il nostro pubblico si senta a casa. Inoltre la passione la si può trovare anche nel nostro staff che è molto unito. Se abbiamo un problema di grafica ad esempio, abbiamo tante persone che subito riescono a darci una mano proponendo sempre idee diverse che poi alla fine si sposano perfettamente insieme.
Se parliamo di dee la prima che mi viene in mente è la dea Partenope. dato che la vostra è una realtà giovane e anche un po’ particolare, qual è il vostro rapporto con il territorio? Quali riscontri avete avuto da quando avete iniziato a fare party?
Pidi: Qua a Napoli è la nostra seconda serata, prima facevamo feste a Castelvolturno e il riscontro non è stato molto positivo. Cambiando zona proponendo qualcosa di nuovo ci ha aiutato con il nostro rapporto con la gente e c’è stato da subito un grosso feedback molto positivo. Vittorio: Le persone sono state disposte ad essere rieducate ad uno stile non commerciale, una serata vapor a Napoli non esisteva. Anche se ancora non ci siamo espressi completamente. La musica vapor di per sé è molto particolare ed è difficile proporla per una serata intera, per quanto riguarda l’estetica il riscontro invece è stato pienamente positivo. Le persone che vengono alle nostre feste ora sono vapor, anche prima lo erano ma non sapevano di esserlo.
A questo punto ti chiedo, cosa serve per essere vapor?
Pidi: Bisogna indossare vestiti anni ’90 marcati adidas , nike, fila o altri grandi brand di moda in quegli anni, per lo più colorati. Vittorio: In più bisogna essere eccentrici in tutto, l’eccentricità è anche essere sicuri di sé. Indossare un colore è una sorta di affermazione di sé stessi, vestire di nero è molto facile e comune invece vestire con il rosa, il giallo, l’azzurro quindi un colore diverso e non ordinario è più difficile ma è questo che ti rende vapor. Sei vapor appena esci fuori dal comune.
Da cosa è nata questa ispirazione vaporwave? Da dove è partita la scintilla che vi ha fatto dire “diventiamo vapor”?
Vittorio: Il nostro è stato amore a prima vista. L’ispirazione è venuta più o meno in estate e siamo stati catturati dallo stile e dalle immagini che trovavamo. Mentre facevamo un po’ di ricerca pensavamo: “Ma perché non la facciamo nel napoletano una serata del genere?”. Lo dicevamo in continuazione e ci siamo ritrovati poi ad organizzarla effettivamente. Pidi: La nostra è stata anche una rinascita, ciò che eravamo prima non ha avuto riscontri positivi e perciò dovevamo decidere tra il cambiare o morire e ovviamente abbiamo deciso di cambiare proponendo uno stile nuovo e diverso.
Come detto la “vaporwave” è una corrente giovane e un po’ fuori dal normale, vi sentite un po’ anche voi come l’eccezione? Come quelli che fanno feste in qualche modo non alla portata di tutti per lo stile che proponete?
Vittorio: Certo, ma la cosa principale è essere eccentrici e sicuri di se stessi per far parte del nostro mondo. Noi stessi ci dimostriamo così e chi viene per la prima volta magari si sente un po’ insicuro ma sicuramente appena si troverà insieme a noi nel locale si troverà a suo agio e potrà sentirsi parte di qualcosa.
Per concludere, se doveste scegliere un’icona dello spettacolo, del cinema o della musica che rappresenta a pieno il vostro concetto alla base dei party chi scegliereste?
Pidi: Io vorrei scegliere una canzone che è il manifesto della musica vaporwave. Il brano è リサフランク420 / 現代のコンピューe fa parte di Floral Shoppe di Macintosh Plus.
Vittorio: I Crystal Castels, anche loro sono un gruppo musicale ma esprimo l’essere vapor non solo nella musica ma anche a livello estetico.
Di seguito alcune foto della loro ultima serata scattate da Gesualdo Lanza, l’album completo lo trovate sulla pagina facebook Venus.
La fotografia è in grado di bloccare il tempo ed un fotografo deve sapere raccontare il suo!
Venerdì 3 Novembre siamo stati ai Magazzini Fotografici di Napoli dove abbiamo potuto ammirare la mostra di Luca Matarazzo: Eromata. Quest’ultima è caratterizzata da una serie di istantanee pronte a farci esplorare l’esibizionismo dei nostri giorni, quello che Luca definisce ”il tempo dei selfie”. Le immagini dunque non vogliono nascondere bensì mostrare, mettere a nudo personalità e forme. Luca è anche un foto reporter – ha seguito quanto accaduto a Parigi al Bataclan, gli sgomberi della Jungle Calais, … – e sa l’importanza di dover documentare la realtà. La mostra, come tutte le sue foto, sono proprio questo: documenti dei nostri giorni. Abbiamo avuto l’occasione di intervistarlo per approfondire la sua fotografia e il tempo dei selfie. Buona lettura !
artwork: Im.Kermit
C’è una differenza fra il Luca fotoreporter e il Luca fotografo di Emorata?
L’unica vera differenza è che quando faccio il foto reporter mi pagano. Io sono innanzitutto un appassionato di fotografia, per questo faccio il fotografo. Con gli anni sono riuscito a far diventare la mia passione un lavoro, quindi lo faccio con più piacere, ma è comunque lavoro, ci metti del tuo ma un po’ ti castri (salvo reportage personali) perchè devi tener conto del pubblico al quale ti riferisci in quella occasione; in più lavori con tantissima velocità e non riesci, magari, ad approfondire una storia.
Questa velocità che detta i ritmi di un reportage è un po’ la stessa presente nella street photography, oggi molto in voga. C’è una differenza fra i due tipi di fotografia?
Il limite è minimo, ma ci sono alcune differenze. Nella streetphotography sei influenzato dall’idea che hai della città e che cerchi di esprimere attraverso le foto. Con il reportage invece cerchi di parlare di qualcosa, in teoria, di vero. Qui la velocità ti aiuta perchè non riesci a ragionare e dunque non crei empatia con la scena.
É brutto da dire, ma quando nel 2015 ho fotografato la la strage al Bataclan è stato adrenalinico, chiaramente non bello e positivo. Dover lavorare in modo veloce in quel caso ti aiuta perché non ti fa realizzare che stai fotografando un morto, la velocità non ti porta a pensare che a terra c’è un cadavere di un tuo coetaneo, morto per follie ad un concerto. Io ora mi mangio le mani perchè nell’unico momento in cui ho provato un attimo di empatia non ho scattato una foto che sarebbe potuta essere significativa.
Il mio mestiere è documentare, quella foto documentava un momento e dovevo farla.
Con la mostra si parla di ”tempo dei selfie”, credi che i social e gli smartphone abbiamo ucciso la fotografia?
Che problema c’è? Io faccio un tipo di comunicazione, tu ne fai un’altra, chissenefrega; sono molto ‘’open’’.
Tieni conto inoltre che i selfie, la gente che usa gli smartphone per fotografare, sono una fonte di ispirazione per me.
Io con questa mostra sto raccontando te con la tua fidanzata; ‘’te’’ sono io dietro la fotocamera in quel momento, ecco perchè nella mostra ci sono ragazze normali, per questo c’è la ragazza in carne, quella curvy, quella magra, con le tette piccole, il naso strano. Le ragazze con cui usciamo non sono top model, siamo persone normali e c’è la bellezza della normalità. Ci si innamora dei dettagli, che magari son difetti rispetto ai canoni estetici.
Ti ho chiesto dei social, perchè attraverso le foto quello sembra essere un mondo perfetto, anormale. Come si è arrivato a tutto ciò secondo te?
Ci è stato imposto un modello, dettato dai giornali di moda in cui loro devono vendere un prodotto e quindi deve essere così, perfetto. Perchè ti fai la foto dove ti schiacci le tette, se le tette poi ti cadono? Ci sarà a chi piace così e ti prendi il tuo pubblico. A me piace che ci sia la naturalezza, verità. Per me questa mostra non è un lavoro d’arte o di fashion, lo vedo sempre come una sorta di reportage.
Le tue istantanee raccontano la società odierna e da esse si evince una sessualità estrema; pensi quindi che oggi si tenda all’esagerazione di tutto?
Si. Non è per forza un male. In Italia dopo gli anni 70 c’è stato un muro su quest’argomento. C’è stata la democrazia cristiana prima e il berlusconismo poi che hanno posto un muro. Con il berlusconismo la sessualità si è sviluppata come un mezzo, molto paraculo. Prima c’era la classe operai, non il ricco o il calciatore. Si è sviluppato un modello consumistico
Credo però che oggi un po’ si stia riaprendo la situazione
Circa la mostra Eromata è disponibile anche un libro, info in Direct Message su @Luca_Mata_8.
Sabato 28 e domenica 29 ottobre si è svolto a Dugenta, in provincia di Benevento, l’Ortika Power il festival di street art sannita ideato dallo street artist Fabio Della Ratta alias Biodpi, con l’aiuto dell’associazione Agorà e della fattoria sociale Melagrana. Il festival che quest’anno ha raggiunto la sua undicesima edizione, così come la precedente, ha avuto luogo proprio nella fattoria Melagrana dove immigrati ma anche ragazzi italiani provenienti da territori difficili con altrettante difficili situazioni familiari alle spalle collaborano quotidianamente con le persone del posto. Principi di solidarietà ma soprattutto di accoglienza sono dunque un punto fermo della fattoria sociale che di conseguenza si estendono e si fondono anche nei principi alla base di tutto il festival.
Foto di Fabio Biodpi Della Ratta
Così come il luogo, anche la maggior parte degli artisti sono stati confermati rispetto all’anno scorso. Quest’anno infatti è stato possibile ammirare un ulteriore contributo artistico alla struttura della fattoria da parte degli ormai già conosciuti: Gianluca Raro, Larva, Errico Di Cerbo, Lume, Salvatore Troiano, Ivan Del Giudice, Sdu e Opium che attraverso la loro arte hanno regalato ancora più magia ad un posto immerso nella natura sannita facendolo diventare ancora di più tappa obbligatoria per gli appassionati di street art e non solo. Per ritornare ai sentimenti di accoglienza e solidarietà che si respirano in quel luogo, quest’anno anche un ragazzo Gambiano Muhammed Cessay ha esordito come artista insieme ad altri tre connazionali, Alh Ebrima Sanyang Lamin Saidy Amir Fadlalah, che insieme formano i The Homebull Boy. L’opera, creata attraverso la tecnica dello stencil, è un tributo alla loro terra d’origine Il Gambia rappresentata dal volto di un leone con i colori dello stato Africano da dove provengono e da dove sono partiti per l’avventura della vita a fare da contorno. Inoltre, ad essere stato inondato di street art è stato anche un capannone situato nei pressi della fattoria, facente parte dei beni culturali confiscati alla camorra, rimasto ancora inutilizzato ma che ora gode di nuova linfa grazie agli interventi di Raro, Opium e Larva. Alla fine è stato presentato anche il libro, Ortika Big Family, che contiene la storia di entrambe le edizioni e testimonia attraverso foto e citazioni quello che si respirava durante il festival; ovvero la sensazione di star facendo qualcosa per gli altri ritrovandosi allo stesso tempo in un ambiente sereno e amichevole ed il tutto reso ancora più bello dalla tanta street art che chi c’era ha potuto ammirare.
Di seguito le foto di tutti i murales scattate da Fabio Biodpi Della Ratta.
“Al culmine della disperazione, solo la passione dell’assurdo può rischiarare di una luce demoniaca il caos.”
Emil Cioran, filosofo romeno, scrisse queste righe nel 1934, descrivendo con largo anticipo quello che da li a poco sarebbe successo nella storia dell’umanità. Il susseguirsi dei conflitti mondiali,degli estremismi politici e tutti quei valori abbracciati come fedi in cui l’uomo ha cercato conforto hanno mascherato la realtà: un mondo pieno di angoscia, dove non è possibile tenere sotto controllo il male; oggigiorno la nostra è una generazione disperata, cioè letteralmente non abbiamo speranze.
Siamo il frutto della distruzione e della ricostruzione della società, che vive a ritmi troppo frenetici e che non riesce ad assorbire tutti i cambiamenti che avvengono.
Figlio di questo centrifuga, di questo tritatutto che ti stritola e non ti risparmia è Jahseh Dwayne Onfroy, meglio conosciuto come XXXTentacion.
Il ragazzo nasce in Florida nel 1998, è un soggetto atipico, da non catalogare come il classico ragazzo millennial afro-americano e questo lo si può notare già dall’aspetto: rasta colorati, pluri-tatuato in faccia (tra cui la scritta Numb sotto la palpebra destra) e uno sguardo tanto profondo quanto i suoi trascorsi di vita che fanno pensare piu ad un personaggio di True Detective che ad un artista Si, artista. La figura di XXXTentacion non è assolutamente riducibile all’epiteto di rapper, questo ne da prova nel suo album d’esordio: 17. 17 è l’album che non ti aspetti da un ragazzo di soli 19 anni, in quanto tratta temi “scomodi” che non dovrebbero essere alla portata di un teenager, ma come detto prima: è un soggetto atipico. Fra i temi principali e fili conduttori dell’album troviamo argomenti come: la depressione, il suicidio, la violenza e gli incubi; ma soprattutto non te lo aspetti se comprendi che il successo del rapper si deve al brano: “Look at me“, diciamo non proprio il genere di canzone che illustra i temi sopra elencati. XXXTentacion con il suo album d’esordio si è posto come un vero e proprio astro nascente del panorama urban, in un’epoca culturale (musicalmente parlando) che prevede la bella apparenza e il poco contenuto nei testi, il rapper della Florida vuole rappresentare l’esatto opposto, contenuti molto pesanti e un’immagine pressochè scomoda da vedere. Pezzi come Jocelyn Flores, Everybody Dies in their Nightmares sono un’istantanea delle esperienze contro il male che XXX ha dovuto accettare e assorbire in se stesso per poi esporlo nei suoi testi. La musica è in ultima analisi il mezzo attraverso il quale XXXTentacion vive, riportando i suoi pensieri piu profondi nei testi e analogamente riportando la sua musica nella vita, come se lo confortasse. Pochi giorni fa, XXXTentacion tramite le stories di Instagram ha annunciato il suo ritiro dalla scena musicale, a soli 18 anni, con un album all’attivo e tutta la strada spianata per un successo annunciato.
Andando piu nel dettaglio, XXX aveva annunciato prima la rescissione del contratto con l’etichetta “Capitol Records”, annunciandosi come: ” Tired of this shit”, per poi annunciare la sua indipendenza per motivi musicali : “I do what I want” .Il 28 Ottobre però, sempre tramire le instastories scrive :” Sad to annunce I will not be making or releasing any music, I am tired of being mentally abused for trying to help people, I’m tired of the hate, I’m done.”
Sfogo? Hype? Realtà? questo ce lo dirà solo il tempo, sperando che X non diventerà da astro nascente del rap a meteora.
In controtendenza, con gli artisti pronti a mettere da parte la musica, sostituendola con le instagram stories o qualsiasi altra cosa pur di far parlare di se, c’è chi come Coco invece ha saputo aspettare il suo momento costruendo se stesso e la sua musica.
Partito 7 anni fa col rap nel Poesia Cruda Mixtape – con Luchè, Gue e non solo – Corrado (all’epoca) ha lavorato su se stesso per poi ripartire daccapo con Coco, per dare importanza alla musica!
Parlare di lui come rapper però è riduttivo: Coco rappa, canta e soprattutto sperimenta!
‘’Rappo o canto fa lo stesso, tanto faccio tutto meglio’’
Coco, Luche & Geeno – Vivo Per Questo
Dando un’occhio ai commenti su YouTube sotto i suoi brani è possibile capire davvero la sua cifra stilistica e quanto sta creando. Testi di vita vera, ricchi di struggle e dubbi uniti ad un’estetica curata al dettaglio hanno fatto si che Coco diventasse una realtà significativa per la musica italiana, unica se ci si sofferma poi su Napoli.
Abbiamo avuto l’occasione di intervistarlo, per scoprire meglio il suo rapporto con la musica e con Napoli.
É raro vedere un’artista partenopeo non parlare esplicitamente della sua città, su Facebook in uno status ne hai parlato come la città più bella del mondo, eppure nei tuoi testi Napoli sembra non esserci in questa ottica. Che rapporto hai con la tua città?
Io non parlo di Napoli esplicitamente, ma in qualche modo c’è sempre. Il mio rapporto con lei è di amore ed odio, come tutti. Da quando sono a Londra però la sto apprezzando di più, l’ho sempre amata, ma oggi dopo 5 anni fuori ne avverto la mancanza. Mi manca molto la verità che ti trasmette la città, soprattutto la sua umanità. Per questo quando vengo qui la ritengo la città più bella del mondo, però magari non è così, viverci.
Da quando sei a Londra hai intrapreso il tuo business, attraverso la Pizzeria Bravi Ragazzi e Daddy Buns, eppure dai tuoi testi emerge ancora la tua voglia di rivalsa. Dove vuoi arrivare?
Io sono un eterno insoddisfatto. Più cose realizzo più non sono soddisfatto, crescendo lo sto capendo sempre di più. Questa è una croce che mi porterò sempre.
Sicuramente mi piacerebbe crescere musicalmente, non in senso mediatico bensì personale. La mia è una guerra continua contro me stesso, più che con gli altri. Tutto quello che faccio non mi piace mai. Il mio obbiettivo non è quello di fare un disco che sfonda, ma di fare un disco che mi faccia dire ”bello, hai fatto bene”.
Soffermandoci sulla tua musica, tu canti e rappi, ma non fai i ritornelli come molti rapper-cantanti, nei feat ti fai sempre la tua strofa. Preferisci rappare?
Non riesco a vedermi solo come un rapper, mi piacciono tante cose diverse; ascolto da Gianni Celeste a Curtis Mayfield. Ho tante sfaccettature, ma si, il rap è la mia passione principale, il mio mondo.
Pensando alla società odierna è facile affermare che l’apparenza, il gusto estetico, sia più importante dell’essere, della sostanza. Dai video alla musica, tu e il tuo team, capitanati da Luchè, riuscite ad unire entrambe le cose, come pochi o forse nessuno.
Fa semplicemente parte del nostro essere, non è voluto. Io sono un grande osservatore, mi piace scoprire e conoscere; in più sono molto perfezionista e quindi ci tengo a curare tutto fin troppo.
Come ti spieghi invece che il trend della musica odierna, in Italia ma non solo, sia proprio l’apparenza piuttosto che la musica in se (paradossalmente)?
Credo sia un problema generazionale. Adesso le nuove generazioni che si approcciano al rap hanno diversi punti di riferimento.
Io sono cresciuto con un’altra visione del rap che ho tutt’ora. Dalle medie sono appassionato anche di moda, ma ho sempre fatto una distinzione fra i due mondi. Sono cresciuto con i Co’Sang, i Mobb Deep, realtà che adesso non esistono. Nel mondo ormai l’approccio è superficiale. A differenza degli States in cui c’è spazio per Kendirck Lamar, per J Cole e spazio per Lil Yatchy o Lil Uzi Vert. In Italia il pubblico è più ristretto, non c’è spazio per tutti. Sono fiducioso però, credo stiamo arrivando ad un cambiamento.
Io sono più sensibile alla musica che mi lascia qualcosa, se poi sto tra amici ascolto lo SKRT, ma nel mio privato, nelle mie giornate nere (80% della mia vita) voglio emozionarmi; ma mi piace tutto.
”Sto illuminando il mio show, prima di salire sul palco” diceva Corrado nel 2012 in Ciò che abbiamo siamo noi. Oggi c’è Coco e di luce nel tuo show ce n’è tanta, adesso è uscito un nuovo brano qual è il prossimo obbiettivo?
Ci sono artisti che cambiano le regole e altri che restano nelle persone. Io non mi ritengo il primo tipo di artista, voglio lasciare qualcosa alle persone. Sono felice quando mi fermano e mi dicono che con le mie canzoni si emoziona e ragiona. Non voglio essere il trend del momento o il king del rap.
Se guardiamo la scena rap da fuori notiamo come siano in pochi a dare spazio alle proprie debolezze. Se guardiamo la scena napoletana da fuori invece notiamo come tu sia il solo a farlo. Napoli è la città dell’amore e dei sentimenti, eppure nel rap questa cosa non si nota: o c’è la denuncia sociale, un rap più di strada, o ci sono le barzellette. Come mai?
Non lo so, credo sia dovuto al mio background. Sono cresciuto con i Sottotono, Tormento; quello sicuramente mi ha influenzato. C’è un altro approccio.
In un mondo in cui il Dio denaro è il centro di tutte le attenzioni è normale che la creatività viene soppressa dalla furbizia. La furbizia di fare soldi facili italianizzando, ad esempio, icone dello streetwear internazionale per legittimare un prodotto fasullo, ma non solo. Quanto sta accadendo nel mondo dello streetwear, italiano nello specifico, ma anche altrove, è la prova inconfutabile che ormai quella cultura dettata dal binomio ”sono dunque vesto” è in fin di vita. L’apparire, i soldi, l’hype ed i like hanno rovesciato il binomio di prima in ”vesto dunque sono” ho la maglia del brand del momento allora sono il più cool. L’esempio di come questa cultura in cui essere ed apparire convivevano potrebbe essere Fedez che ora indossa Supreme dalla testa ai piedi, ma fino a poco tempo fa indossava prodotti fake (legal fake) del brand di New York; cosa che un vero appassionato non farebbe.
Il fenomeno del legal fake, purtroppo però non è alimentato solo dalla furbizia ma anche e soprattutto dall’ignoranza e dalla fiducia del consumatore. Quest’ultimo, magari non un vero appassionato del genere, compra un prodotto legal fake perchè sui social ha visto il suo rapper preferito con una maglia simile, con la stessa stampa e scritta, ignorando totalmente il mondo nascosto dietro di essa. I social purtroppo hanno ampliato il raggio d’azione dello streetwear, ma hanno lasciato dietro il suo bagaglio culturale. Questo fa si che i legal fake si diffondano sempre di più e che ad essi si affianchi un altro tipo di fenomeno: quello dei brand parassiti, ancora peggio. – mangia pane a tradimento – Basti pensare a Pray Haute Couture e Santo, i cui loghi sono un’appropriazione impropria delle mani in preghiera simbolo di Drake (che a sua volta richiama l’arte Medievale), oppure a Make Money Not Friends, non è altro che una copia di Fifty Karats, per la maggior parte dei capi, ma anche di Supreme. Si tratta di fenomeni, che non dureranno a lungo e che soprattutto non segneranno la storia dello streetwear, se non in negativo. Fenomeni nati dal Dio denaro e non dalla passione. Per fortuna in Italia c’è chi tenta di ridare onore allo streetwear, brand come South Fresh Clothing, Iuter, Fugazi, … ma la loro sfortuna è probabilmente quella di essere onesti.
In Italia quindi oggigiorno ci si preoccupa di avere idee geniali per imbrogliare il prossimo piuttosto che sforzarsi nel creare qualcosa di nuovo!
Napoli è da sempre un’avanguardia quando si parla di techno, sia per quanto riguarda gli artisti che propone il nostro territorio sia se parliamo di eventi. Nel corso del tempo si sono susseguite varie organizzazioni che si sono alternate nel proporre artisti di spessore per il pubblico napoletano. Ad oggi la situazione non è cambiata e a chi c’era prima si sono aggiunte nuove realtà come quella di Mutate ad esempio, che sin dall’inizio ha proposto line up insolite portando con sé ideali di valore e una nuova linfa musicale per il pubblico napoletano diventando pian piano una finestra verso un concetto di festa più internazionale. Abbiamo deciso così di intervistare il suo fondatore Giorgio Capuano per parlare del suo rapporto con la techno e delle motivazioni che lo hanno spinto ad organizzare eventi, ma non solo. Abbiamo scambiato due parole anche sulla sua YAM Agency, agenzia che offre servizio booking per DJ, e discusso di alcune problematiche della scena techno napoletana con un occhio di riguardo verso il loro prossimo party (clicca qui per l’evento FB) e verso alcuni nomi nuovi che saranno i protagonisti delle feste future.
Innanzitutto, vorrei sapere come è iniziato il tuo rapporto con la techno
In realtà mi occupavo di tutt’altro in campo professionale e vivevo il party napoletano di musica elettronica da utente, come tutti fondamentalmente; in particolare mi occupavo di ristorazione. Stufo di questo lavoro e delle troppe pressioni, un mio caro amico (che tutt’ora organizza eventi per una grossa organizzazione napoletana) mi chiese di dargli una mano per i suoi eventi.Iniziammo a collaborare assiduamente e siccome stavo cominciando a vivere l’aspetto professionale del mondo della notte, cominciai ad esprimere i miei dubbi e i miei punti di vista sui vari aspetti degli eventi in cui collaboravo. Col tempo divenni meno interessato all’organizzazione degli eventi e la mia attenzione si cominciò a spostarsi solo verso il booking e il management. Iniziai cosi a lavorare dedicandomi solo a questo settore, lavorando per l’organizzazione per diversi anni. Non smetterò mai di ringraziarlo per avermi introdotto in questo ambiente.
Poi quando te ne sei andato è iniziato Mutate? No, ho lasciato l’organizzazione nel 2008 perché ero troppo sovraccarico di questo ambiente, non tolleravo più alcune cose e questo decisi di cambiare totalmente settore.Ci sono ritornato dopo alcuni mesi, in modo naturale, perché è la mia passione. Aprii la mia agenzia di bookings, la YAM Agency, con solo artisti giovani, nessuno affermato e da lì fino adoggi l’agenzia continua a camminare.
Cosa ti ha spinto poi ad ideare Mutate ma soprattutto cosa ti ha spinto ad organizzare feste qua a Napoli?
Mutateè nata forse da un’esigenza; noi all’epoca lavoravamo con l’agenzia dietro diversi artisti giovani (Angy Kore, Logotech, Raffaele Attanasio) a cui, per forza di cose, il mercato napoletano non era interessato non perché non c’era qualità, ma perché chi proponeva e propone eventi a Napoli ha dei legami ben precisi con dei filoni e delle agenzie. Supportare un’agenzia giovane che portava talenti in giro per il mondo non era semplicemente nel loro interesse. In realtà tutto è nato per gioco qualche anno fa quando facemmo due party di compleanno dell’agenzia. Il primo nella sala 3 del Duel: l’evento fu sold out; c’erano 650 persone (che realmente non entrano nella sala 3, ndr). Questo riscontro col pubblico napoletano ovviamente in quel momento allargò le nostre vedute. Riprovammo l’anno dopo e successe la stessa cosa. Nel frattempo continuavamo ad avere richieste continue per i nostri artisti ma i promoter napoletani non ci supportavano. Poi, a ridosso del 2013, c’è stata quest’ondata underground di sonorità nette, la techno minimal stava cominciando a sparire completamente e si stava rigenerando sotto altre forme. Quella techno oldschool che volevamo, stava ritornando e ritornava con artisti come Shifted e tutto il panorama berlinese, e gran parte di nostri artisti suonava questo genere di musica. C’è stato quindi, questo cambiamento generazionale e a Napoli non c’era nessuno che la proponeva; abbiamo così deciso di proporla noi. Il primo party è stato organizzato a Natale del 2014, e in quella occasione ci affiancammo ad un altro gruppo napoletano che organizzava per quella serata una serata un po’ più commerciale, con l’obiettivo di rappresentare l’alternativa. Volevamo portare quest’onda europea a Napoli. Il party andò bene però ci guardammo intorno e ci rendemmo conto che forse non rispecchiava il vero mood Mutate. A parte il sound proposto da Shifted, tutto il resto non lo sentivamo come nostro e decidemmo infatti di fermarci immediatamente. Ad esser sincero nessuno sapeva se un giorno avessimo ricominciato ad organizzare party o meno. Il punto è che volevamo offrire un party di qualità e ci ritrovammo a fare quello che facevano tutte le altre organizzazioni.
Dopo questo primo party vi siete fermati, cosa ti ha spinto poi a ricominciare?Quelli che non la pensavano come noi sparirono dalla scena e dopo l’estate e dopo lunghe riunioni, ci siamo ritrovati in 7,8,10 e la pensavamo tutti allo stesso modo. Così ci abbiamo riprovato con un primo party con Mike Storm, in maniera molto spensierata e già rassegnati alle condizioni locali. Fu un party quasi gratuito, con 250 persone tutte amichevoli,non c’erano “tarantellari” cuozzi, solo bella gente e da lì abbiamo continuato.
Uno dei vostri slogan è “Changing is now”, esattamente che cambiamento si intende?
Il cambiamento è legato alla club culture napoletana che, in parte, si rispecchia anche in quella italiana, ma non ovunque. Noi non condividiamo minimamente come erano e come sono organizzati e gestiti gli eventi a Napoli, non condividiamo l’idea che il Clubber deve essere solo un numero e non condividiamo il fatto che le cose negative si protraggano di evento in evento e non vengano corrette. Noi non possiamo accettarlo. Changing is now significa che noi vogliamo dare aria fresca musicale, legata al pubblico, legata fondamentalmente a tutto ciò che riguarda una festa. Il problema è riportare l’educazione nella club culture, che non significa solo comportarsi bene in un evento, significa sapere viverlo e avere rispetto per il Dj, per la sicurezza, per tutto.
Da qui anche l’altro slogan che è “Chiedi scusa, chiedi permesso, ringrazia”? Si, è un motto che abbiamo ripreso da un’organizzazione argentina, l’Under Club di Buenos Aires, che a loro volta hanno copiato dalle parole del papa (Papa Francesco, ndr.). Queste parole erano state pronunciate durante il suo viaggio in Argentina; l’intento era di invitare le persone ad essere educate e usò testuali parole: “Permiso, perdon y gracias”. Loro ovviamente l’hanno riportata nel club perché sono parole universali; fondamentalmente in qualsiasi contesto vanno bene e perché anche la scena argentina viveva la nostra stessa problematica legata al club. A me piacque come idea e sentivo che fosse necessario divulgarla. E’ un messaggio importante, pesante, non a tutti risulta facile divulgarlo.
Intervento di Jean-Michel Roques (Co-founder Mutate e creatore dei video teaser delle feste): Penso, come ha detto Giorgio, che sono parole universali. Il problema è che come è difficile cambiare la società così è difficile cambiare qualsiasi contesto; questo vale appunto anche per la club culture napoletana che ha sì tanti pregi ma anche tanti difetti. Ciò non significa che in Europa o nel mondo sono tutti perfettini, ognuno ha le proprie pecore nere, però qui c’è stata sempre una tendenza a vedere magari il club come un posto non dove andare a sentire musica nel vero senso della parola ma come se fosse semplicemente una piazza dove andare a sfoggiare l’abito migliore o semplicemente per poter dire “Io sono stato qui” come se fosse una passerella. Questo slogan, con la sua naturalezza, penso sia un incentivo anche per le persone che magari per potersi integrare, fanno finta di essere “cattivi”, magari per fargli capire che la realtà è un’altra e non è quella chiusa che purtroppo sono costretti a vivere anche per una questione di debolezza e, collegandoci anche a “Changingisnow”, per fargli capire che il cambiamento è ora e non in un ipotetico futuro. Non è che noi siamo angelici, la normalità dovrebbe essere questa.
Giorgio mi hai detto che questo cambiamento si lega principalmente alla scena napoletana quindi secondo te qual è questo problema?
Il problema è principalmente sociale e culturale, non riguarda solo il club. Se tu ci fai caso, anche tra i ragazzini che giocano a calcio per strada la maggior parte tendono ad imitare il peggiore: se c’è quello che fa il bullo tutti gli vanno dietro, perché ha un atteggiamento di forza. Questo si ripete anche nel club, c’è quello che fa il bullo, c’è quello che da la spallata, quello che scredita il DJ, quello che si prende gioco di uno che si è vestito magari con un accessorio particolare. Anche in altre città questa cosa si vede. Il punto è che questi non sono i migliori e secondo me, il riflettore va messo proprio su questi atteggiamenti. I migliori sono altri, i migliori sono quelli che quando vanno agli Awakenings o nei migliori festival europei, non aprono bocca. In quelle occasioni imitano chi si comporta bene, cioè il clubber che balla sulla propria mattonella senza dare fastidio a nessuno. Penso che il problema sia proprio culturale e forse nemmeno solo napoletano ma anche italiano, lo vedi ovunque, anche nella politica… Il politico che “fotte” la gente viene preso dalle masse come l’esempio.
Riguardo la prossima festa con SNTS, Gigi Galli e The Extraverse, oltre la line up avete annunciato anche un nuovo impianto audio, chi sarà presente che cosa deve aspettarsi da questa festa?
Non ci sono stati imposti gli impianti audio che avevamo fino ad oggi ma comunque avevamo molti vincoli legati al club, alle strutture, al budget. Per fortuna la proprietaria del Crash di Pozzuoli si è messa a nostra completa disposizione e ci ha dato la possibilità di portare un impianto valido. Chi verrà, sicuramente ascolterà musica buona,probabilmente riusciranno a sentire i passaggi meglio, riusciranno a sentire dei suoni quasi impercettibili con altri impianti presenti ora a Napoli. Il tutto è garantito dallo staff Void che viene direttamente da Catania. L’impianto è davvero importante, è l’uomo in piu’, quello che fa la differenza. Questo Void farà la differenza!
Le vostre line up spiccano per la loro ricercatezza, avete ospitato nomi come Ansome, Luciano Lamanna, AnD e molti altri, guardando oltre mi sai dare qualche nome nuovo rispetto a quelli già invitati?
Tra i nomi che portiamo quest’anno riconfermiamo Raffaele Attanasio e sicuramente porteremo gli stessi artisti sotto un’altra veste ad esempio Truss come MPIA3, come nomi nuovi stiamo provando a portare Kobosil, Paula Temple e gli altri per forza di cose non te le posso dire.
Un nome che ancora non è alla vostra portata, se c’è, che però ti farebbe proprio piacere di portare ad una tua festa?
L’unico limite nel 2017 è legato all’aspetto economico. Negli ultimi anni si sono viste cose assurde. Una cosa che probabilmente vorrei avere e che sicuro non possiamo permetterci è una performance di Aphex Twin. Il punto è che oltre i soldi devono essercianche le condizioni necessarie, soprattutto nell’apertura mentale del pubblico.
Ora parliamo della YAM Agency, un’agenzia di servizio booking per DJ, tra i nomi spunta quello di Raffaele Attanasio, come nasce il tuo rapporto con lui?
Sicuramente c’è Raffaele ma c’è anche ad esempio Angy Kore meno famoso in Italia, ma all’estero suona tantissimo. Ha suonato praticamente ovunque.Raffaele ha iniziato con noi praticamente pochi mesi dopo che abbiamo aperto l’agenzia, forse nel 2010. Mi fu presentato da Luigi Giomini insieme ad altri DJ e Raffaele già emergeva, anche se si chiamava in altro modo e produceva altra musica. Già si sentiva che aveva quel tocco in più.
Probabilmente quel tocco in più deriva dal fatto che ha già un buon background musicale, suonando il piano no?
Sicuramente anche per il suo background, ma suonare il piano o la batteria o un qualsiasi altro strumento in questo campo non significa avere la strada spianata o la carriera garantita. Per produrre techno non c’è bisogno di questa particolare conoscenza musicale; sono fondamentali le sensazioni che riesci a trasmettere oltre le note. Raffaele sicuramente ha le basi musicali ma ha anche quell’orecchio per capire come far provare queste sensazioni; ha fatto tracce inconfondibili come Der Himmel über Berlin che forse è poesia per la techno, così come Roads. C’è anche un suo 15 minuti di solo piano che, nonostante non sia techno, lascia emozioni forti. Oggi è facile fare la traccia con la cassa forte a 135 bpm e arrivare facile alle persone, il punto è lasciare il segno e lui lo lascia sempre.
Ha partecipato quest’anno ad una delle vostre feste, proponendo sia una performance live che dj set. Tu in quale versione lo preferisci?
Mi piace in entrambi casi ma forse dipende anche dal momento. Ti faccio un esempio: per me il live che propone Raffaele è il non plus ultra dei live, in ogni live cambia strumentazione e non suona mai la stessa traccia allo stesso modo in due posti differenti e il bello è che usa tutto quello che si porta. Quest’estate però ha fatto un dj set in Puglia dove fondamentalmente ha suonato tutte tracce di fine anni ’90 e inizio anni 2000 e mi sono emozionato comunque perché mi ha preso particolarmente musicalmente.
Tu lavori in entrambi i campi, sia come organizzatore che come agente, qual è la richiesta più assurda che hai ricevuto per un tuo DJ e quale invece quella che ti ha fatto un DJ che volevi portare ad una tua festa?
Per quanto riguarda le richieste in agenzia ti posso dire una che è arrivata proprio oggi: mi ha scritto un prete di una chiesa italiana che deve festeggiare le cresime con oltre 1000 cresimandi in un evento dove si alternano arte e musica e voleva un DJ nostro a questo evento. Mi arrivano richieste per matrimoni anche dalla Germania e dall’India ma ioho sempre detto di no. D’altra parte nel panorama techno le richieste non sono poi così assurde: c’è da dire che alcuni vogliono solo alberghi 5 stelle o altri che vogliono mangiare da soli in camera, chi è vegano ma non ci sono richieste assurde, sono solo esigenze e io da agente lo comprendo. Viaggiare per 3-4 giorni a settimana sottopone gli artisti a forte stress.Sicuramente non mi piacciono le prese di posizione.
Disco e artista preferito?
Regis mi piace tantissimo. Per quanto riguarda il disco c’è Strings of Life di RhythimIsRhythim, uscito su Transmat che mi è stato regalato in questi giorni; questo disco mi fa proprio perdere la testa.
We use cookies on our website to give you the most relevant experience by remembering your preferences and repeat visits. By clicking “Accept All”, you consent to the use of ALL the cookies. However, you may visit "Cookie Settings" to provide a controlled consent.
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. These cookies ensure basic functionalities and security features of the website, anonymously.
Cookie
Durata
Descrizione
cookielawinfo-checkbox-analytics
11 months
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Analytics".
cookielawinfo-checkbox-functional
11 months
The cookie is set by GDPR cookie consent to record the user consent for the cookies in the category "Functional".
cookielawinfo-checkbox-necessary
11 months
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookies is used to store the user consent for the cookies in the category "Necessary".
cookielawinfo-checkbox-others
11 months
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Other.
cookielawinfo-checkbox-performance
11 months
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Performance".
viewed_cookie_policy
11 months
The cookie is set by the GDPR Cookie Consent plugin and is used to store whether or not user has consented to the use of cookies. It does not store any personal data.
Functional cookies help to perform certain functionalities like sharing the content of the website on social media platforms, collect feedbacks, and other third-party features.
Performance cookies are used to understand and analyze the key performance indexes of the website which helps in delivering a better user experience for the visitors.
Analytical cookies are used to understand how visitors interact with the website. These cookies help provide information on metrics the number of visitors, bounce rate, traffic source, etc.
Advertisement cookies are used to provide visitors with relevant ads and marketing campaigns. These cookies track visitors across websites and collect information to provide customized ads.