Caserta: scrivere della città distratta

Nel corso degli anni mi sono trovato di fronte a tanti libri. Alcuni li ho amati, altri mi sono rimasti indifferenti. Non posso dire di aver odiato un libro.

Odiare un libro significherebbe odiare la libertà con cui la sua autrice o il suo autore si è espresso, significherebbe odiare l’atto stesso della scrittura che rende irrinunciabili tutti gli argomenti che tratta nel momento in cui si compie.

Posso dire, però, che all’interno della categoria dei libri che ho amato, ce ne sono alcuni che ho amato di più. Probabilmente per egoismo o perché sono una persona egoriferita – termine che va molto di moda nelle conversazioni tra i miei coetanei – infatti dopo aver citato un titolo di cui sono innamorato, accompagno alla descrizione della trama una breve introduzione sugli autori e, quindi, nella maggior parte dei casi, alla precisazione che sono casertani, come me.

Poter dire di un autore che è casertano – come me – me li rende vicini. Fino a quando non apparterrò, e sempre se mai vi ci apparterrò, alla categoria degli scrittori, continuerò a far leva sulla provenienza geografica per approssimarmi a chi prossimo non è, ma vorrei che lo fosse.

I principali indiziati sono due: Antonio Pascale e Francesco Piccolo.

Quando sono a Caserta ho gioco facile, anche se chi ho di fronte non ha mai letto niente di uno dei due o di entrambi, tutti sanno che Antonio Pascale lavora al ministero dell’agricoltura e che Francesco Piccolo scriveva di Juvecaserta.

Vivono entrambi a Roma e su di loro aleggia un’aura di rispetto. Posso tesserne gli elogi senza contradditorio. Quando non sono a Caserta e devo convincere i miei interlocutori che Pascale e Piccolo sono di autori importanti, che sono stati in grado di ritagliarsi un ruolo di rilievo nel panorama della letteratura italiana contemporanea, pur venendo da Caserta, faccio più fatica.

Mi tocca precisare che Pascale ha vinto il Premio Chiara e Piccolo il Premio Strega. E mi tocca anche precisare cosa significhi aver vinto il Premio Chiara e il Premio Strega, a volte. Solo il dato materiale della vittoria dissolve lo scetticismo.

Se scrivessi di Pascale e Piccolo insieme, potrei dilungarmi troppo. Quindi ho deciso di rimandare al futuro ulteriori approfondimenti. Qui mi interessa di più parlare di un libro in particolare che mi capita di citare in maniera non intenzionale.

Me ne sono accorto nei mesi invernali, durante un soggiorno prolungato a Milano. A Milano ho conosciuto tante persone provenienti da città diverse a cui ho tentato di illustrare, dettaglio dopo dettaglio, il profilo della mia città di provenienza con i suoi riti, i suoi tic, il suo fascino. E nell’affermare che a Caserta succedono tante cose di cui non ci si rende conto o che, peggio, quando le si comincia a notare, finiscono, le ho attribuito la definizione di «distratta». E la lampadina si è accesa.

La città distratta è il libro che ha consacrato Antonio Pascale scrittore. Uscito nel 1999, poi ripubblicato nel 2009 con il titolo Ritorno alla città distratta, si è imposto nell’immaginario collettivo come fedele rappresentazione di Caserta e delle dinamiche del Sud Italia. Il narratore accompagna chi legge camminando tra le strade e osservando i fenomeni che rendono unica la provincia di Terra di Lavoro.

Il narratore ha le gambe forti e il fiato lungo, riesce persino a seguire i pendolari che si spostano a Roma e a dipingerne un malinconico ritratto. Sempre dentro e contemporaneamente fuori dalla storia, con l’acutezza di chi vede le cose accadere dall’esterno e l’empatia di chi le sente sulla pelle.

So di fare un torto all’opera concentrandomi sul valore che ha avuto per me, ma questo racconto è un’autobiografia sentimentale più che un articolo di giornale e quindi, tant’è.

Caserta io l’ho conosciuta davvero attraverso gli occhi e le parole di Pascale. E potrei affermare di aver conosciuto così anche me stesso.

Quando mi presento alle persone dicendo che io sono un ex giocatore di pallacanestro o un ex giornalista di quel giornale locale che tutti conoscono, mi ricordo che: «Il fatto è che Caserta è piena di ex. Ci sono ex democristiani, ex maoisti, ex cattolici, ex comunisti, ex comunisti. Non ci sono invece ex fascisti. Ci sono solo fascisti. Ma non mancano ex preti, ex imprenditori, ex atleti… E quelli che non sono ex ancora ex, sembrano in procinto di diventarlo».

Quando invece ritorno a casa dei miei genitori, dopo mesi di assenza, mi capita di uscire con gli amici. Anche io come il protagonista de La città distratta passeggio alla ricerca dei punti di riferimento che hanno fatto della città, la mia casa.

Capita che al posto del locale in cui ho trascorso parte della mia adolescenza, ci siano delle stanze sfitte a cui è appiccicato il cartello affittasi o che l’agenzia di viaggio in cui ho prenotato il mio primo viaggio indipendente si sia trasferita poco più avanti.

A Via San Carlo, nei luoghi in cui il sabato sera si radunavano le persone con cui avevo piacere, e di tanto in tanto non avevo piacere, parlare ci siano altri luoghi in cui ora si radunano delle persone con cui qualcuno avrà piacere, e di tanto in tanto non avrà piacere, parlare.

Perché ancora nel 2023 a Caserta ci sono tanti locali, «ce ne sono alcuni che hanno successo nel giro di pochi mesi, richiamano persone a frotte. Ma durano poco, perché a Caserta i locali sono come quelle farfalle variopinte e splendenti che muoiono presto, dopo un po’ finiscono e addio a tutti».

Capita che abituato all’offerta culturale delle grandi città, mi venga voglia di andare al cinema. Pascale dice che: «A Caserta i cinema per molto tempo non sono esistiti» e io aggiungo che sono tornati a non esistere. Con l’arrivo delle piattaforme streaming e le chiusure forzate dovute alla pandemia, le persone hanno smesso di andare al cinema. Allora i cinema hanno chiuso.

Ne è rimasto solo uno nel centro commerciale Campania che, nel momento in cui Pascale scriveva, non solo non esisteva, ma non si poteva prevedere sarebbe esistito. Sono rimasti pochi ragazzi che organizzano il cinema all’aperta a Villa Giaquinto, l’ex parchetto delle Amache, e sono in attesa di diventare ex, anche se ancora non se rendono conto.

 «È che a Caserta le cose finiscono»
ma quando ho letto Pascale, per la prima volta mi sembrava di vivere in un posto che esistesse davvero. Non me lo stavo inventando, non era solo un nome stampato sulle cartine geografiche, era un minuscolo universo magmatico in risonanza con il resto della Campania, del Sud e dell’Italia intera.

Le cose che succedevano a Caserta acquisivano, per me, una rilevanza nuova. Vederle ordinate nei capitoli che si susseguono all’interno del libro, mi rendeva comprensibile avvenimenti a cui non avrei saputo attribuire un senso.

Caserta diventò un sistema di cui potevo finalmente scoprire le incognite. E da quel momento capì che se l’aveva raccontata qualcun altro, avrei potuto raccontarla anche io. La città distratta è il faro che mi indica il porto a cui mi dirigo con fatica. E anche se a Caserta le cose finiscono, dopo aver letto quel libro, a me pareva che fosse tutto appena iniziato. 

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