Antonio Acunzo è un giovane fotografo napoletano che ha scelto di raccontare il Rione Sanità attraverso le sue persone e l’occhio discreto di una macchina analogica. Il suo progetto porta un nome che incuriosisce: El Sistema. Un titolo che potrebbe evocare immaginari lontani, ma che in realtà nasce da un modello virtuoso sviluppato in Venezuela, il Sistema Abreu, capace di trasformare la musica in un potente strumento di integrazione e riscatto sociale.



Partendo da quell’esperienza, Acunzo ha rivolto il suo sguardo al cuore di Napoli e a una delle realtà più emblematiche della città: il Sanitansamble, un’orchestra di giovani cresciuti nel Rione Sanità, che attraverso la musica trova nuove possibilità di incontro, formazione e futuro. Con il suo lavoro fotografico, Antonio prova a restituire la bellezza che ha colto stando accanto a questi ragazzi: la forza della comunità, il valore delle relazioni e il potere dell’arte come linguaggio universale.
Qual è il tuo primo ricordo della fotografia? Raccontaci i tuoi inizi, quando e come ti sei avvicinato alla fotografia?
Avere una macchina fotografica o una videocamera fra le mani, fin da bambino, è stato per me un motivo di evasione da un mondo che, ancora oggi non sento mio.
Ogni volta che dovevo raggiungere il mio porto sicuro, cercavo di alienarmi e raccontare la mia immaginazione e la mia realtà attraverso un rullino, attraverso un foro che mi indirizzava nella direzione “giusta”.
I rullini mi hanno sempre accompagnato, come se fossero delle pillole che mi curavano dalle insicurezze del futuro, dai desideri di allontanarmi da qualsiasi certezza.
La fotografia ha avuto un ruolo molto importante nella mia vita. Dopo le scuole superiori decisi di affrontare un percorso di studi a Trieste, seguendo i corsi di ingegneria navale e nel frattempo cercavo di pagare tutte le spese facendo alcuni shooting in giro per l’Italia.
Non stavo bene, non ero del tutto convinto della mia scelta. Fino a quando la vita mi ha messo davanti ad un bivio. Il 16 ottobre 2021 tutto è cambiato. Sul letto di un ospedale, dopo essermi svegliato da un coma aprii gli occhi e vidi mia madre: “Voglio seguire la fotografia, ciò che amo, ciò che mi fa stare bene”
Dopo quel “momento” decisi di iscrivermi alla facoltà dello IED a Roma, per seguire il corso di Laurea in fotografia per cercare di approfondire le mie conoscenze ed il mio sapere.
Scelta più giusta e bella non avrei potuto fare. Ho incontrato professionisti e docenti grazie ai quali sono riuscito a fare un grande passo in avanti. Certo non mi sento di dire che ora sono un vero e proprio artista e fotografo, ma credo di poter raccontare alle persone ciò che davvero ho dentro, e forse un giorno riuscire ad aiutare gli altri con la mia arte.
La fotografia nasce dalla nostra immaginazione e dal nostro sguardo, non da ciò che usiamo per crearla.
Quando nasce l’idea del tuo libro? Raccontaci tutto il processo creativo.
Grazie all’attività svolta da mio padre, direttore d’orchestra che ha consacrato parte della sua carriera artistica alla rinascita culturale di intere generazioni del quartiere, ho sempre vissuto indirettamente le storie, le persone, le dinamiche.
Ho sempre creduto che quel luogo avesse qualcosa da dire, da raccontare. E allora ho deciso didare voce, o meglio, di dare un volto quelle storie attraverso la mia macchina fotografica.
L’idea nasce da un’urgenza, un colpo al cuore. Il rione Sanità non poteva essere raccontato in fretta, nè filtrato da pixel freddi, serviva la pelle viva della pellicola, il respiro lento del medio formato e del banco ottico.
Aver scattato in analogico è stato un atto d’amore e di rispetto: ogni scatto è stata una scelta, una preghiera.



Curioso è il nome, da dove nasce?
Il lavoro fotografico svolto nel quartiere Sanità, riprende e reinterpreta il modello educativo EL SISTEMA nato in Venezuela in un quartiere di Napoli con forti contrasti sociali mostrando come la musica, l’arte e la cultura possano diventare strumenti di riscatto, educazione e coesione sociale.
Il punto di svolta nella creazione del mio libro è stato il poter entrare in stretto contatto con l’orchestra giovanile Sanitansamble.
I ragazzi dell’orchesta, hanno avuto un ruolo cruciale nella creazione del libro, mi hano ospitato mi hanno portato tra le strade e nelle case della gente del Rione. Sono diventato tutt’uno con il tufo e i cuori delle persone, che non si sono mai tirate indietro nel raccontare le proprie storie.
All’inizio del progetto Sanitansamble, i giovani coinvolti nel programma, mentre attraversavano il quartiere con i loro strumenti musicali, venivano spesso derisi.
Questo atteggiamento era il riflesso di una mentalità prevalente, secondo cui l’onestà e lo studio erano considerati irrealizzabili in un contesto dove l’unico “strumento” concepito per la sopravvivenza era la violenza.
Oggi, però, questi stessi giovani dispongono di uno strumento che non è di morte, ma di vita, un mezzo di riscatto attraverso la musica.
Questa trasformazione ha influenzato il contesto della Sanità, contribuendo a ridurre la presenza dei clan che operavano nella zona, nonostante alcuni recenti episodi negativi ricordino che il percorso di cambiamento è ancora in corso. Un aspetto particolarmente significativo è osservare il processo di preparazione dei giovani in orchestra, il loro modo di suonare, di posizionarsi, e di interagire tra loro. È emozionante percepire l’armonia e la coesione che si instaurano, evidenti anche nei loro sguardi.

Il rione Sanità è cambiato molto negli ultimi 10-15 anni, entrando nelle case dei suoi abitanti come l’hai trovato? Com’è oggi la Sanità?
Napoli è una tribù che ha deciso di non arrendersi alla cosiddetta modernità e questo suo
rifiuto è sacrosanto».
Pier Paolo Pasolini
Dal 2008 ho avuto l’onore di osservare tutto il cambiamento di questo meraviglioso Rione. Ricordo perfettamente, una delle prime volte che entrai nelle vie principali del quartiere, si respirava un’aria totalmente diversa e surreale rispetto ad oggi.
Dal 2000, l’arrivo del nuovo parroco della Basilica di Santa Maria della Sanità ha segnato l’inizio di un processo di riqualificazione e valorizzazione del patrimonio storico-artistico e umano del luogo.
Una nuova vita, dunque, per l’intero Rione. Spesso Vince chi resta e sviluppa consapevolezza su come esaltare il capitale culturale attorno a sé.
Con la fotografia, influenzato da autori come Alec Soth e Dorothea Lange desidero raccontare Napoli per quello che è veramente, non per come è stata raccontata fino ad ora. Napoli, purtroppo, è stata ampiamente fotografata e omologata sotto l’egida di uno stereotipo turistico, riducendo la sua complessità e la sua vibrante autenticità. Il mio obiettivo è cambiare il modo di vedere questa città, cercando di andare oltre i luoghi comuni e di restituirle una nuova prospettiva, più intima e sincera, che ne esplori le contraddizioni, la bellezza nascosta e l’anima profonda.



Le foto sono in pellicola, un po’ in controtendenza con l’epoca digitale in cui ci troviamo, coma mai questa scelta e che risposta hai avuto dai soggetti?
Scattare in analogico mi ha permesso di entrare davvero in connessione con il luogo e le persone oltre che focalizzarmi sul momento. Obbligato a trovare la luce perfetta e il momento giusto, ero consapevole di avere a disposizione uno scatto e basta.
È stato un lavoro minuzioso, in cui però mi sono lasciato spesso trasportare dall’emozioni, in senso positivo.
Tra uno scatto e l’altro, ciò che mi porterò dentro è l’ospitalità delle persone che, pur non conoscendomi, mi hanno aperto la porta delle loro case e dei negozi come fossi uno di loro.



L’idea di conoscere nuove persone, l’dea di entare in contatto con nuove storie mi porta ad avere tanto entusiasmo e curiosità.
Il mo approccio, sia nel lavoro “Beautifully Different” legato alla disabilità, sia nel lavoro “El Sistema”, nasce da un ascolto profondo.
Prima ancora dello scatto, c’è l’incontro. Entro in punta di piedi, senza invadere. Porto con me il medio formato, una macchina lenta, che mi costringe a fermarmi, a guardare davvero, entrare in relazione. Con le persone non cerco ‘immagine perfetta, cerco la verità. Dedico tempo, creo uno spazio di fiducia e rispetto.
Non fotografo mai senza un consenso pieno, ma soprattutto, senza aver condiviso almeno unframmentodi vita con chi ho davanti. Che sia una famiglia in una casa del Rione o una persona con disabilità, il gesto fotografico arriva dopo lo scambio umano.
Questa lentezza, diventa alleata: rompe la fretta, crea intimità. Un processo che non vuole solo raccontare ma restituire dignità, umanità, complessità. Ogni scatto è un patto silenzioso: io ti vedo, ti accolgo così come sei.

