Spotted: Revyn Lenae

Nell’era moderna tra le tante battaglie che i paladini dei diritti umani stanno combattendo, c’è quella che punta a ridurre sempre di più l’emancipazione delle donne. Questa lotta, come tante sue simili, molto spesso è abbinata ad un famoso slogan che recita così: “Girl power”, la potenza delle donne. Il quale ha la stessa valenza dello slogan “Black power” urlato dai neri in ogni rivendicazione della loro identità. Questo articolo però non sarà assolutamente una noiosa revisione degli sviluppi del ruolo della donna ora rispetto a prima o di come potrebbe migliorare in futuro. Si potrebbe parlare di come le donne arabe siano riuscite ad ottenere, finalmente, il diritto di guidare ma non è questa la sede adatta né il momento giusto. Adesso, abbiamo intenzione semplicemente di celebrare la figura della donna presentandovi una artista giovane che oltre alla girl power possiede anche la black power, oltre ad essere giovanissima ma già con tanto talento da vendere. Stiamo parlando di Ravyn Lenae, cantante afroamericana classe ’99 nata a Chicago che non ha, ancora, partecipato a nessuna lotta femminista o a qualche marcia per la rivendicazione dei diritti dei neri ma è un perfetto esempio odierno di come, anche se sei donna e scura di pelle, puoi conquistare il tuo posto nel mondo.

Il posto nel mondo di Ravyn è e sarà sicuramente su un palco a cantare le sue canzoni (è anche cantautrice). Nonostante sia ancora giovane, ad oggi ha 19 anni, la sua carriera è iniziata già 3 anni fa con la release di “Moon Shoes”, un album di 10 tracce registrato e rilasciato autonomamente nel 2015 e successivamente ristampato nel 2016 da Atlantic Record, che vanta tra la marea di artisti scritturati nomi del calibro di Aretha Franklyn, Otis Redding, fino ad arrivare a nomi più recenti come quelli di Bruno Mars, i Coldplay e molti molti altri, di certo non è l’ultima label americana. Vocalmente è tutto quello che un ascoltatore di R’n’B/Soul può desiderare, in un’intervista rilasciata per Pitchfork nel febbraio 2016 ha rilevato di esser stata influenzata musicalmente dal sound degli Outkast così come da quello di Eminem, Timbaland, Erykah Badu e India.Arie. Musicalmente, per quanto riguarda “Moon Shoes” e il suo secondo EP “Midnight Moonlight” uscito il 3 Marzo del 2017, deve tutto al producer di Chicago Monte Booker che insieme a Ravyn e al rapper Smino formavano il collettivo Zero Fatigue. Booker ha sempre seguito la voglia di sperimentare di Ravyn ed entrambi gli album sono un insieme di sonorità R’n’B classiche miscelate con suoni decisamente più moderni, frutto (probabilmente) della giovane età dell’artista. “Midnight Moonlight” come in parte si evince dal titolo è inoltre, rispetto a “Moon Shoes”, un album più introspettivo, con sonorità che trasportano verso ambienti notturni ma ancora una volta è la sperimentazione a farla da padrona ed ecco quindi che è possibile ascoltare traccie che variano molto passando dal Nu-soul al Dream pop.

Il suo ultimo album “Crush”, prodotto questa volta da Steve Lacy e uscito a febbraio di quest’anno, è ciò che stesso lei ha identificato come l’album in cui dimostra di esser cresciuta e maturata sia musicalmente che nella vita in generale, dichiarando di non aver dovuto più nascondere certe cose nella sua musica. L’album è a tutti gli effetti l’espressione più soul di Ravyn e il contributo di Steve Lacy è sicuramente meno sperimentale rispetto a quello di Monte Booker nei precedenti due album, ma sicuramente è ciò che mancava nella discografia della giovane afroamericana. Ravyn, come detto, è giovane ed è da poco laureata alla Chicago High School for the Arts, la sua carriera è effettivamente solo all’inizio e sicuramente ci delizierà con altri progetti musicali di valore, resta solo che aspettare.

La libertà indie, nasce Indiemen

La musica italiana negli ultimi anni ha visto accogliere un numero sostanzioso di nuovi artisti spesso catalogati come ”indie”. Cosa significa Indie? Cos’è l’Indie?
Mai come in questo caso trovare una definizione (chiara) risulta difficile.

Innanzitutto, ”indie” è il diminutivo di indipendente ed indica: un’appartenenza ad un’etichetta indipendente, dunque autonoma e dislocata  dalle major, ed uno stile, nella musica come nell’abbagliamento, totalmente libero.

La musica indie nasce sul finale degli anni ’80 in Inghilterra, è figlia del post-punk e del rock, ma negli anni è riuscita a connettersi ai più svariati generi musicali come il pop o l’elettronica. Per rispondere alla domanda iniziale, dunque, si potrebbe dire che l’indie è un genere musicale figlio dei nostri tempi, un genere in cui si mischiano tutte le influenze del passato unite ad una voglia di libertà, laddove tutto si è saturato ed appiattito. Il suo forte impatto oggi è sicuramente figlio del web. Un’artista contemporaneo non ha, necessariamente, bisogno dei grandi contatti di una major, con i social network può raggiungere quante più persone possibili.
Per arrivare al grande pubblico però ce ne vuole, eppure c’è chi riesce nell’impresa mostrando ad una nazione un’aria fresca ed un’attitudine nuova pronta a sovvertire le regole del gioco.

In questa dimensione Indie e popolare troviamo, in Italia, sicuramente Calcutta, Lo Stato Sociale, Cosmo, Colapesce e davvero tanti altri, tanti dei quali tenere d’occhio come Iosonouncane, i Belize, o altri che mischiano Indie e Rap come Frah Quintale o Carl Brave & Franco 126.

L’indie è un mondo da scoprire, in tutte le sue infinite sfumature ed in piena libertà. Quest’ultima sta cambiando l’Italia ed anche il concetto di serata, tant’è vero che a Napoli nasce “Indiemen” (un chiaro gioco di parole fra napoletano ed inglese) pronto a trasportare tutto ciò in un aperitivo domenicale, a partite dal 24/06, dove poter assistere anche al live del trio avellinese Fuyu (ne abbiamo parlato qui).

Link per l’evento Facebook: https://www.facebook.com/events/251531128929426/

Spotted: Nu Guinea, pionieri del Napoli sound

C’è un momento nella vita in cui nella propria mente cresce un’esigenza particolare di trovare nuovi stimoli, come se tutto ciò che avessimo fatto prima non avesse più valore e si ha bisogno di trovare e provare qualcosa di nuovo. Tutto ciò succede anche (e soprattutto) a chi è artista, per il quale aspirazioni e stimoli servono come il pane. Tutto ciò è successo a Massimo Di Lena e Lucio Aquilina due giovani ragazzi napoletani, rispettivamente classe ’88 e ’85, fondatori, nel 2014, del duo Nu Guinea, che però ha preso vita a Berlino. Al duo va collegata la nascita dell’etichetta discografica NG Records e inoltre Di Lena è fondatore, insieme a Dario Di Pace e Pellegrino Snichellotto, della Early Sounds Recordings etichetta madre per quanto riguarda la corrente del nuovo “Napoli Sound”, dove è giusto citare artisti come Rio Padice e i The Mystic Jungle Tribe.

Massimo Di Lena e Lucio Aquilina erano entrambi, intorno alla metà degli anni ’10 del 2000, due giovani prodigi della minimal techno e protagonisti assoluti della scena napoletana del tempo, poi è arrivato quel momento della vita e hanno deciso di cambiare, cambiare genere, cambiare aria, ed ecco quindi il “rifugio” a Berlino, ed ecco quindi i Nu Guinea: l’espressione perfetta della loro anima house, che viene fuori soprattutto nel loro primo disco omonimo uscito nel 2014. House, ma non solo, i Nu Guinea (in perfetto stile napoletano) hanno saputo inglobare nella loro musica matrici black, adottando sonorità funk, soul, jazz-funk, tribal, fusion e afrobeat, vedi l’EP “World” ma anche l’album “The Tony Allen Experiments”, per finire poi a tendenze disco, come testimonia “Amore”, EP uscito nel 2017 inaugurando la NG Records. Il loro ultimo disco “Nuova Napoli”, uscito ad Aprile di quest’anno, è il must-have delle loro pubblicazione. Le sette tracce comprese nel disco sono una fusione tra la tecnica di Massimo e Lucio nel suonare vari synth, tastiere e drum machine con l’abilità di altri strumentisti come Andrea De Fazio (batteria), Adam Pawel (percussioni), Roberto Badoglio (basso), Pietro Santangelo (sax) e Marcello Giannini (chitarra) e il cantato, rigorosamente napoletano, di Fabiana Martone. “Nuova Napoli” è un omaggio a Napoli da parte di due giovani nostalgici che hanno scelto di emigrare e allo stesso tempo è il tributo perfetto alla scena napoletana anni ’70-’80 di cui fanno parte Pino Daniele, James Senese, Toni Esposito e compagnia. Provate ad ascoltare uno dopo l’altro “Nuova Napoli” e l’omonimo disco di Toni Esposito uscito nel 1974, vi sembrerà che il tempo non sia passato mai.

Tributo si, ma anche evoluzione. I Nu Guinea, soprattutto con “Nuova Napoli”, rappresentano per la nostra generazione ciò che i Napoli Centrale (giusto per fare un nome) e i loro dischi rappresentavano per coloro che hanno vissuto quel periodo, dei ragazzi che con la musica, con il cosiddetto “Napoli Sound”, si sono guadagnati un posto nel mondo portando in alto il nome della città. Questo perché hanno conservato la tendenza artistica, tipicamente partenopea, di interiorizzare musica, principalmente black, proveniente dall’esterno per poi esprimerla a modo proprio, ma è il contesto che cambia. Se prima i Napoli Centrale parlavano di quanto erano “Ngazzate Nire” e Pino di come i potenti si “mangiano” la città mentre noi beviamo ‘na tazzulella e cafè, i Nu Guinea raccontano una differente generazione, tormentata dall’inquietudine dei tempi moderni e che perciò vulesse truvà pace, di come i giovani napoletani siano costretti ad emigrare per raggiungere i propri obiettivi e l’unica cosa che gli rimane è la nostalgia dei tempi passati a jucà a pallone ‘ngopp ‘e quartier.

Credits Photo: Nu Guinea

Hellheaven11: non un trend, ma un’esigenza

Napoli, se si parla di party, ha un bel po’ da offrire, il problema sta qualora si cerca la qualità, piuttosto che una selecta di musica random, senza un filo logico o un’attitudine ben precisa. Questa assenza, in ambito Hip Hop, è stata sopperita da Hellheaven11. Quest’ultimo ormai da un anno e mezzo ha rivoluzionato il concetto di party a Napoli. Già l’anno scorso li abbiamo intervistati, per scoprire cosa si celasse dietro il nome che aveva invaso la città con i suoi flyers.

Ad un anno di distanza le cose si sono evolute! Il party, in inverno, si è svolto in un locale più grande e ci sono stati ospiti importanti: uno su tutti The Night Skinny. Abbiamo dunque approfittato dell’inizio della stagione estiva per farci una chiacchierata con loro.

Hellheaven11: non un trend, ma un'esigenza

Hellheaven11 ha rivoluzionato il concetto di party a Napoli. In occasione dell'inizio della stagione estiva ne abbiamo approfittato per farci una chiacchierata con loro.📹: Giorgia AmatoIl resto dell'intervista sul sito, link nei commenti

Posted by ESCVPE on Tuesday, May 15, 2018

La vostra scommessa di portare un party hiphop/trap è riuscita? Soddisfatti o ne volete di più?
Kevin: Noi non siamo ancora soddisfatti.
Calafiore: Lo saremo nel momento in cui riusciremo a portare artisti internazionali.
Antonio: Io spero non lo saremo mai. Nel momento in cui lo sei, ti senti appagato e ti rallenti un po’. Bisogna essere sempre affamati.

Cosa ci dobbiamo aspettare dalla stagione estiva?
Antonio: Noi ci aspettiamo di migliorare ciò che già abbiamo fatto, ci saranno artisti, speriamo di portare novità rispetto a situazioni già viste. Ci saranno anche gadget che faranno da contorno, abbiamo in mente un poster, valorizzare adesivi; insomma perfezionare quanto già fatto.

A Napoli siete stati trendsetter, è innegabile. Avete figli e copie un po’ ovunque ora, in certi casi si sono create anche tante connessioni, che effetto vi fa?
Antonio: Secondo me, in questo momento a Napoli noi siamo Supreme; così come esiste Supreme Italia esistono queste copie che dici tu; ma la cosa che abbiamo fatto noi l’avrebbe potuto fare chiunque, siamo stati i primi e se la gente sceglie noi un motivo ci sarà. Un conto è la musica un conto è l’atmosfera e probabilmente quest’ultima non la trovi da altre parti.
Karonte: Dipende da queste persone quando hanno iniziato cosa pensavano. Magari loro hanno voluto cavalcare l’onda, per guadagnare, mentre noi siamo partiti sott’acqua e poi abbiamo cavalcato l’onda. Tieni conto però che noi amiamo la musica ed avere comunque questa scelta musicale, più giorni alla settimana non è male.
Calafiore: Che nascano realtà come la nostra nell’hinterland napoletano tanto di cappello, ad Avellino, Benevento, Birds In Trap a San Sebastiano. Conosciamo e collaboriamo con tutti. A Napoli no.
Antonio: Gli altri li supportiamo, lo facciamo per la musica e siamo contenti che gira, ma se qualcuno vuole venire a ”farci le scarpe” a casa nostra non ci sta bene.
Fresko: è bello capire se sei sulla nostra stessa wave. Se ha la testa uguale a noi, perché non darti una mano? Tu puoi portare qualcosa a noi e viceversa.

Intorno a voi si è creata una vera e propria comunità, qual è l’elemento che ha permesso tutto ciò?
Antonio: A parte la mentalità, l’aver sfruttato le tecnologia come andavano sfruttate. Probabilmente siamo stati fra i primi ad aver creato un gruppo facebook dove sono nate e successe cose. Ci si aiuta con i passaggi, si divulga la musica. Noi non siamo mai stati una serata solo. Con noi c’è una relazione quotidiana, proprio attraverso i social, ben o male si parla sempre di hellheaven e se oggi veniamo a mancare si crea un vuoto. E’ abitudine per molti scrivere sul nostro gruppo.
 Calafiore: C’era un esigenza. A Napoli c’erano solo party commerciale – reggaeton.

Fresko: C’è anche un concetto di libertà. Una libertà d’espressione che da altre parti non c’è. Se sei un appassionato di sneakers, di un determinato abbigliamento o musica, da noi non verrai mai snobbato.

 

Con voi si va altre la musica, c’è tutto uno scenario il giovedì: dagli stickers ad un dresscode preciso. La provocazione con Supreme Italia è riuscita? Cos’è successo?
Calafiore: è un meme che è nato scherzando fra di noi, come nascono tutte le nostre cose. Antonio che cura i contenuti di Facebook non la voleva pubblicare. Mi sono imposto io perché sapevo del potenziale di quell’immagine e Antonio mi ha accusato di aver creato flame, ma non è così. Chi ha commentato non frequenta la nostra serata, non sanno chi siamo, chi viene realmente ad una serata o non sanno cosa significa non entrare in un locale perché non sei vestito come gli altri. In realtà il messaggio del meme era ben più complesso: compri una maglietta ed ascolti musica non consapevolmente ed io ti trollo con il meme.
Antonio: Se vesti Supreme Barletta non stai realmente all’interno del meccanismo, perché se così fosse chi non può comprare Supreme non indossa il fake, magari compra una maglia semplice Nike, ma conosce la vera Supreme.

Ora che avete raggiunto una certa notorietà c’è il rischio di diventare banali e monotoni, quasi come i trend in generale, ci pensate mai?
Calafiore: Non pensiamo di essere un trend.
Fresko: Che esiste il trend a noi interessa ben poco, esiste quello che siamo.
Caronte: Riconfermare la Rotonda è stato importante, un pugno forte per non far scemare quanto stiamo costruendo.

Antonio: Se noi facciamo questo è perché c’è della gente che ama l’hiphop, non è che domani tu ti svegli e non lo ami più, quindi se tu mantieni la tua identità e dai lo stesso prodotto alle stesse persone, che ne hanno bisogno, tu non le perderai mai. I pezzi che vengono a mancare magari sono quelli che si riciclano e seguono le mode.

 

A tal proposito, come vedete l’hip hop ora? Secondo molti ora stiamo vivendo la vera Golden Era, secondo altri ora il suono è diventato monotono.
Fresko: ogni era è una golden era, inutile rifletterci. Se parli con un ragazzo che aveva 20 anni con i Run DMC per lui quella sarà la Golden Era. E’ come paragonare Maradona e Messi, due giocatori che sanno giocare a dei livelli estremi, ma vanno inquadrati nel loro contesto. I Public Enemy hanno sfondato perchè avevano quel messaggio, Drake sfonda in egual modo ma ha un messaggio diverso.
Karonte: Basta dividere l’ascolto che vuoi fare, se vuoi approfondire argomenti seri su Spotify c’è una playslist che si chiama ”Hello Bars” con anche artisti contemporanei, se vuoi divertirti ascolti altro.
Antonio: Il segreto è cogliere l’aspetto positivo della musica che ascolti. Se è Tupac ti concentri sulle parole, se è Sfera ti concentri su altro.
Calafiore: Io consiglio di supportare quello che piace, di non rompere il cazzo sulle cose che non vi piacciono. Condividere ”Young Signorino” dicendo che fa schifo, va a suo favore, è chiaro che poi fa 2 milioni di views.

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Robert Herman: la capacità di cogliere l’attimo

Versione italiana

Nella Street Photography la capacità di cogliere l’attimo è tutto e va ben oltre lo strumento che si usa o le regole base della fotografia. Robert Herman lo sa bene, tanto da aver pubblicato un libro con foto scattate solo ed esclusivamente tramite iPhone.

Robert Herman  nasce a Brooklyn (NY) nel 1955 e a partire dagli anni ’70 inizia a scattare fotografia su pellicola Kodachrome, dalla quale uscirà poi il libro:“The New Yorkers”. Quest’ultimo è una raccolta di attimi di una una metropoli, in continuo cambiamento, verso il nuovo millennio. A partire dal 2009 Robert inizia una nuova avventura che lo porterà a pubblicare ‘’The Phone Book’’, uno fra i primi libri di fotografia realizzato con iPhone, in particolare con l’app Hipstamatic. Foto capaci di raccontare da sole l’attimo catturato e a volte lo spirito della città, di Napoli come di Bilbao, Johannesburg o New York.
Abbiamo avuto l’occasione di intervistarlo per approfondire il suo mondo e la Street Photography oggi.

Nella Street Photography qual è la differenza tra oggi e gli anni ’70, quando hai iniziato a scattare?
A New York, molti piccoli negozi sono stati chiusi a causa della gentrificazione. Vengono sostituiti da catene aziendali come H & M e gli sfondi non sono così interessanti. Anche le persone sono più consapevoli della reflex con una lente corta. È più difficile rimanere invisibili. Con il digitale catturate immagini è meno costoso, negli anni ’70 è come se stessi girando un film, bisognava riflettere di più su ciascuna immagine su un 36 fotogramma.

Molte persone pensano che con uno smartphone non si possano fare grandi fotografia, tu sei l’esempio opposto. Smartphone / iPhone rovinano o no la fotografia?
L’iPhone è solo un altro strumento disponibile per un fotografo. È un’ottima fotocamera per fare foto di strada perché non è così ovvia. I social media sono diventati la parte più importante del linguaggio delle immagini. Spero che sia una buona cosa per tutti.

Qual è la tua opinione sui social network? Oggigiorno, nella cultura principale, sembra che la fotografia viva solo online e che sia tutta una questione di te e di quanto tu sia influencer, soprattutto su Instagram.
Per me, i social network sono utili come pubblicità. Come professionista, è un modo fantastico e poco costoso per avere le mie foto di fronte alle persone.
Per quanto riguarda i “Mi piace”, può essere utile testare le mie foto per vedere se funzionano. D’altra parte, i ‘’Mi piace’’  non sono una stampa in una galleria o una foto in un libro. Quindi le foto che sono relativamente semplici ottengono una risposta più forte. Un’immagine sottile, anche se potrebbe essere molto forte, potrebbe non ricevere più di tanti ‘’Mi piace’’. Devo fare attenzione a usare i ‘’Mi piace’’ solo come informazioni e allo stesso tempo rendermi conto che Instagram è un posto molto limitato per presentare le foto.

iPhone Book
English version

In Street Photography, the ability to capture the moment is everything, and goes far beyond the tool you use or the basic rules of photography. Robert Herman knows this well enough to have published a book with photos taken exclusively through iPhone.

Robert Herman was born in Brooklyn (NY) in 1955 and starting from the ’70s he started taking pictures on Kodachrome film, from which he released his book: “The New Yorkers”. This last is a collection of moments of a metropolis, in constant change, towards the new millennium. Starting in 2009, Robert begins a new adventure that will lead him to publish ” The Phone Book ”, one of the first photography books made with iPhone, in particular with the Hipstamatic app. Photos capable of telling the captured moment and the spirit of cities as Naples, Bilbao, Johannesburg or New York.
We had the opportunity to interview him to deepen his world and Street Photography today.

In street photography, what’s the difference beetwen today and the 70s, when you started shooting?
In New York,  many of the little shops have closed because of gentrification. They have been replaced by corporate chain stores like H&M so the backgrounds of the photos are not as interesting. Also people are more conscious of photography so using an SLR with a short lens like I did when I made the photos in The New Yorkers is more difficult. It’s harder to remain invisible. With digital, capturing images is less expensive, in the 70’s I was shooting film and I had to me more thoughtful about each image on a 36 picture roll.

A lot of people think that with smartphone you can’t do such a great photos, but you are the opposite example. Smartphone/iPhone ruined  or not photography?
The iPhone is just another tool available to a photographer. It’s a great camera for making street photos because it’s not as obvious. Social media has made everyone more aware of image making and hopefully has raised the visual literacy of the language of images. Hopefully, that is a good thing for everyone.

What’s your opinion about social networks? Nowadays, in the  main culture, it seems that photography live only online and it’s all about like and how you are influencer, mostly on Instagram.
For me, social networks are useful as advertising. As a professional, it’s a great and inexpensive way to get my pictures in front of people. As far as “likes”  are concerned, it can be a useful way to test my photos to see if they work. On the other hand, thinking about likes cane inhibiting and can influence you’re choices in making photos. The smart phone is a very small screen and it’s not a print in gallery or a photo in a book. So photos that are relatively simple get a stronger response. A subtle picture, even though it may be very strong, may not get as many likes. I have to  be careful to use the likes only as information and at the same time realize that instvagrem is a very limited place to present photos.

The New Yorker

Fabio Petani: un fiore al Parco dei Murales (intervista)

Fabio Petani è un artista urbano, nato a Pinerolo nel 1987, laureato in Beni Culturali presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino con una tesi sull’Arte Urbana.

In Italia, come a Kiev o Atene, è possibile ammirare le sue opere caratterizzate da armonia unica fra fiori, colori tenui, volumi ed elementi di rottura. Il lavoro di Fabio Petani però è innanzitutto un lavoro di ricerca; i fiori sono il suo marchio di fabbrica, ed essi hanno sempre una relazione con il territorio.

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Durante il periodo pasquale una sua nuova opera è sbocciata al Parco dei Murales, zona est di Napoli. Quest’ultimo nasce dopo il terremoto degli anni 80 ed è situato nella periferia napoletana, luogo in cui, INWARD Osservatorio sulla Creatività Urbana, cerca, tramite l’arte di attuare una riqualificazione artistica ed una rigenerazione sociale per la zona. Al Parco dei Murales oggi sono presenti 7 grandi facciate, ognuna con una tematica sociale ben precisa: solidarietà, gioco, lettura ed altro.

I lavori di INWARD al Parco dei Murales sono ben radicati sul territorio, tant’è vero che prima di ogni nuova opera si lavora con la comunità, in particolar modo con i bambini. Durante il mese di marzo i giovani residenti del Parco sono andati all’Orto Botanico di Napoli, una gita importantissima, in primis per avvicinare il centro a chi vive in periferia e poi perché il loro Parco è intitolato Aldo Merola, storico direttore dell’Orto e scienziato. A questa giornata è poi seguito un pomeriggio di disegni, dal quale l’artista ha tratto poi spunto per il suo murale, partendo, ad esempio, dai colori utilizzati.

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Il nuovo murale è dedicato ad Aldo Merola ed ai bambini e si intitola ‘’ ‘O sciore cchiù felice ‘’. Il grande fiore che nasce sulla facciata più bella del Parco è un Arum Italicum (Gigaro Chiaro), fiore presente nel Vallone di San Gennaro oltre che simbolo, nell’antichità, di protezione dei neoneati. A quest’ultimo si aggiunge la scritta latina ‘’silicon’’ ed i numeri 14 e 28,05, rispettivamente numero e peso atomico di tale elemento, in italiano silicio, molto diffuso nei territori vulcanici.

Per l’occasione e per approfondire ancora di più la sua arte lo abbiamo intervistato:

Il tuo è uno stile molto riconoscibile, i fiori in particolare sono il tuo marchio di fabbrica. Come mai? Hai mai pensato di rappresentare altro?

Il mio stile si forma e si rafforza negli anni grazie all’influenza ed al legame con diversi artisti della scena writing torinese e non solo. Affiancandomi a loro ho cercato di trovare un linguaggio che prendesse spunto da quello dei graffiti. Mi spiego meglio. La ricerca di una tag riconoscibile che identificasse l’autore era uno degli aspetti al quale agli inizi ho mirato. Allo stesso tempo non ho mai voluto arrogarmi un trascorso artistico che non ho mai avuto. Perciò non evolvendomi dai graffiti, ma subendo la loro indiretta influenza tramite gli insegnamenti dei grandi storici come Etnik, per citarne uno, ho voluto crearmi un timbro artistico che rispettasse la storia di tutti loro. Così mi sono avvicinato a quello che ora è denominata street art, in maniera un pò troppo larga secondo me, creando una serie di elementi ricorrenti e riconoscibili nel mio lavoro. Il percorso è partito con delle forme geometriche astratte in luoghi abbandonati, da li ho iniziato col tempo ad aggiungere in ogni intervento un elemento chimico che si collegasse in qualche modo al contesto dove lo realizzavo. Dopo ciò alle forme astratte e all’elemento ho deciso di inserire una parte morbida, quella botanica, che aumenta i legami di concetto con la situazione. Il mio lavoro è in continua – ma progressiva – evoluzione, così piano piano aggiungo idee e soluzioni nuove senza discostarmi troppo dai lavori precedenti. E così avanti creo un percorso riconoscibile anche grazie ad alcuni elementi cardine come sono la linea rossa, il cerchio (non sempre sempre) ecc.

Com’è andata la tua esperienza a Napoli?

L’esperienza è stata molto interessante. Mi ha permesso di crescere in consapevolezza e mi ha dato la possibilità di provare alcune idee che avevo in mente. Sono soddisfatto dell’impatto del lavoro sul sistema Parco e non solo. La visibilità sin da lontano permette di arricchire il sistema di abitazioni del quartiere e ciò mi fa piacere. I ragazzi sono i principali destinatari dell’opera e spero che ne possano percepire le armonie.

Inoltre la città è molto interessante per quanto riguarda gli interventi spontanei di molti artisti per le suggestive vie.

La Street Art sta diventando sempre più Arte Pubblica, qual è la tua opinione al riguardo?

Per definizione la Street Art dovrebbe necessitare della strada per aver tale valore, ma si sa che la gran parte degli artisti di street art realizzano esposizioni in gallerie ecc. Quindi è più un problema di termini che di contenuti. Arte pubblica o Arte Urbana sono termini più idonei anche se non corretti, comunque, in totalità. Personalmente mi piace definirmi artista urbano perchè nei miei interventi mi piace lavorare, scoprire e ricamare l’opera sul contesto. Allo stesso tempo è anche Arte Pubblica. Per quanto riguarda le opere su supporti io mi servo di legni (prevalentemente) che trovo per strada e sistemo al meglio quindi anche questa scelta si lega al tessuto urbano, se vogliamo.

L’arte può essere un ottimo punto di partenza per un processo di riqualificazione urbana?

Sicuramente come punto di partenza è perfetto, ma a ciò vanno associati anche interventi più profondi e sociali che coinvolgano e facciano capire alle persone che il bene pubblico e comune è una cosa che migliora la vita di tutti e dovrebbe perciò essere interesse di ognuno. Quindi il punto di partenza vero dovrebbe esser il movimento delle coscienze e l’arte dovrebbe servire a rafforzare il tutto ponendosi come garante dei miglioramenti.

 

Spotted: Vincenzo Pizzi, romantic power

Live performer, producer e sound designer, questo è in sintesi Vincenzo Pizzi, giovane ragazzo classe ’93 nato in Molise e ora di istanza a Roma. Si avvicina alla musica elettronica grazie a Four Tet e successivamente se ne innamora talmente tanto da sceglierla come ragione di vita, prima diplomandosi in Electronic Music Production presso la Nut Academy di Napoli e in seguito conseguendo la laurea in Sound Design allo IED di Roma. Questo suo percorso formativo lo aiuta ad acquisire maggiore padronanza con gli strumenti elettronici, una dimestichezza che sprigiona interamente nelle sue esibizioni live a cui affianca un approccio per di più istintuale; romantico come stesso a lui piace definirlo. Vincenzo è anche fondatore della label Pyteca per la quale ha pubblicato il 14 marzo il suo primo album Ritratto, nonostante ciò ha alle spalle già numerose release ognuna delle quali ha contribuito a formarlo musicalmente facendolo diventare un artista che accoglie la musica elettronica a 360° riuscendo a spaziare, sempre con una buona dose di qualità, tra diversi stili: dall’IDM alla techno passando per l’Old School. Di seguito trovate l’intervista completa.

Partiamo dal principio, sei un ragazzo classe ’93 e di questi tempi scegliere di dedicarsi completamente alla musica ritengo che sia una delle scelte più coraggiose che un giovane possa fare. Qual è stata la motivazione più grande che ti ha spinto a percorrere questa strada?
Difficile ridurre tutto ad una sola motivazione, ce ne sono diverse e molte non saprei nemmeno spiegarle. Non è sicuramente un periodo florido per noi di questa generazione, e di conseguenza ogni scelta è coraggiosa. Dopo la maturità ho deciso di frequentare la Nut Academy di Napoli perché avevo bisogno di capire. È solo una passione, o voglio realmente fare questo nella vita? Dedicavo molto più tempo alla produzione che a qualsiasi altra cosa. Avevo voglia di imparare sempre più, conoscere tecniche nuove e approfondire quelle già acquisite. Mi rendevo conto che con il passare del tempo diventava sempre più appagante e gratificante. Volevo fare quello, non volevo fermarmi per nessuna ragione. Immagino storie, ascolto posti, persone, oggetti e converto il tutto in musica. Poter trasformare quello che immagino, che sento e che provo in qualcosa di concreto.

Cosa o chi, invece, ti ha particolarmente influenzato nella scelta di produrre musica elettronica?
La voglia di poter creare, sperimentare e la possibilità di poter trasformare un suono classico in qualcosa di completamente diverso e inusuale. A detta dei miei genitori, sono sempre stato affascinato dal rumore sin da piccolo. Facevo suonare qualsiasi cosa e mi lasciavo catturare dai suoni dell’officina di mio padre. In macchina volevo sempre la stessa cassetta “Gershon Kingsley – Popcorn”, a ripetizione, più e più volte. Crescendo e con il passare del tempo, ho imparato ad ascoltare e ad assaporare tutte le sfaccettature dei generi e dei rispettivi sottogeneri non solo dell’elettronica. Anzi, sono partito inizialmente dal Punk/Hardcore Punk per poi arrivare alla Techno. The Clash, Joy Division, Lucio Battisti, Franco Battiato, The Smiths, Modeselektor, Gino Paoli e così via. Un percorso costruttivo e graduale. Però ricordo bene quando ho deciso di voler produrre musica elettronica, stavo ascoltano “Four Tet – Plastic People” e qualche giorno dopo ho ordinato il Novation Launchpad con Ableton Lite.

Passiamo ora al tuo percorso formativo, nella tua bio si legge che hai conseguito il diploma in Electronic Music Production alla Nut Academy di Napoli, si sente spesso dire che molti artisti una volta passato del tempo a Napoli siano stati particolarmente influenzati dalla città e dalla atmosfera che si percepisce. Nonostante tu ci sia stato principalmente per studiare, quanto è rimasto di Napoli nelle tue produzioni?
Napoli è una città che ha molto da offrire da un punto di vista artistico, culturale, teatrale e musicale. Ha fatto la differenza senza ombra di dubbio. Mi ha dato quella spinta e quella motivazione in più per continuare a studiare e a produrre. In “Siren Savior” (Pyteca 003), il vocal che ho utilizzato l’ho campionato proprio a Napoli. È una filastrocca che ripeteva un venditore ambulante di caldarroste. Meraviglioso. Era così musicale, ripetitivo e quasi psichedelico che ho immaginato in quel preciso momento la costruzione della traccia.

Credits: Sofia Borrelli

Sul tuo sito, così come sui tuoi canali social, si leggono spesso le parole “Handmade & Romanticism”. Quel “Romanticism” più di “Handmade” mi spinge a pensare alla tua musica come qualcosa che nasce principalmente dalla tua sfera istintiva e poco razionale. Considerando che dopo il diploma alla Nut ti sei laureato anche in Sound Design allo IED di Roma non hai mai pensato che l’insieme di questi percorsi accademici potessero in
qualche modo andare in contrasto con la tua natura Romantica?
In realtà sì, ma ho sempre voluto far funzionare al meglio tecnica e istinto. O almeno spero di riuscirci. Do sempre prima spazio a quello che provo e a quello che voglio esprimere, e in un secondo momento faccio ordine e pulizia. Sono due aspetti fondamentali del processo creativo e della sua realizzazione. Bisogna dosarli bene.

“Handmade” invece ci rimanda al tuo essere principalmente un Live performer, c’è un motivo ben preciso per cui hai fatto questa scelta? Tra i vari strumenti che usi quali non possono mai mancare quando produci?
Mi ha sempre più incuriosito la parte live performer/producer anziché quella del DJ, perché voglio proporre live quello che ho prodotto. Come se fosse un concerto in digitale per intenderci. Mi piace paragonare il mondo della produzione con il mondo dell’artigianato, del fatto a mano. Dare una seconda vita a cose magari fuori uso, creare qualcosa di bello con pochi materiali e strumenti. Sono le mie origini, il mio paese natio Miranda ne è la prova.

Il tuo ultimo album ha come titolo “Ritratto”, uscito il 14 marzo sulla tua label Pyteca, di che ritratto si parla? Dobbiamo considerarlo come il tuo principale manifesto musicale?
Ritratto è il mio primo album ed ha un significato molto forte. Forse sì, potrebbe essere il mio principale manifesto musicale ma senza le precedenti produzioni non avrebbe avuto modo di esistere. Ho cercato di racchiudere tutto quello che avevo in mente, che avevo seminato e raccolto in questi anni. Un ritratto assolutamente introspettivo e musicale. I luoghi che ho visitato, le persone che ho conosciuto, le emozioni che ho provato. Negative e positive. Ci sono diversi riferimenti alla nostra quotidianità. “Contratti” – settima traccia dell’album – descrive la situazione lavorativa attuale. Si presenta ben vestita, con voci che accarezzano la mente e il corpo e che raccontano belle storie. Poi la pausa, interferenze ritmiche, e si riparte. La ritmica aumenta, così come aumenta lo stress e il nervosismo. Aumenta sempre più, con il tempo che scorre incessante e le parole che si ripetono “Work – Fast – Work – Better – Work – Hard”. Ogni traccia ha una sua dettagliata storia.

Prima di noi, hanno già parlato di te magazine online importanti come Parkett e Soundwall ed entrambi ti considerano tra i giovani più promettenti della scena elettronica italiana. Come la vivi questa situazione?
Non può che farmi piacere, assolutamente. Spero di esserlo davvero a questo punto e di mantenere le promesse se così fosse.

Se invece dovessi consigliarci qualche artista italiano che merita come te di far parte della schiera dei giovani promettenti chi sceglieresti?
L’Italia per fortuna ha moltissimo da offrire, però spesso siamo soliti dare priorità a realtà e personalità estere. Con Pyteca sto cercando di dare spazio maggiormente ad artisti italiani anche completamente sconosciuti che però hanno un bel potenziale e una bella personalità. A breve uscirà il primo VA firmato Pyteca, e da lì ci saranno sicuramente altre novità. Lascio parlare Pyteca.

Credits: Erica Bellucci

Quando si parla di un artista giovane uno dei temi principali riguarda il raggiungimento della maturità, sia artistica che umana. Tralasciando la sfera umana che va al di là della musica, dal punto di vista artistico sei un talento eclettico e le tue produzioni non si soffermano su una sfumatura precisa della musica elettronica, spaziando dall’IDM fino alla techno con produzioni che si avvicinano anche all’Old School come nel caso di “4ME”, una delle undici tracce presenti in “Ritratto”. In ottica futura, considerando anche i risultati ottenuti, non pensi che raggiungere la piena maturità possa essere un male e che forse sia meglio rimanere sempre un po’ “immaturo”?
Secondo me è impossibile raggiungere la piena maturità. Non si smette mai di imparare e crescere, quindi anche quando qualcosa sembra aver raggiunto l’apice della maturità ci sarà sempre una briciola di immaturità.

Come detto ti sei laureato anche come Sound Designer, è stata una scelta maturata col tempo oppure era già tutto preventivato?
È stata una scelta maturata col tempo. Volevo conoscere ed imparare nuove tecniche, capire e approfondire il mondo dell’audiovisivo, del cinema e della registrazione.

Come cambia il tuo approccio alla produzione musicale quando a produrre è Vincenzo Pizzi il Sound Designer rispetto a quando vesti i panni del Vincenzo Pizzi Producer?
L’approccio cambia a seconda del lavoro. Se ho carta bianca, l’approccio è lo stesso del producer tenendo conto ovviamente del materiale che ho davanti. Se invece ho una reference molto precisa, metto da parte l’istinto, il romanticismo e opero in maniera assolutamente tecnica.

Domandone finale, cosa vorresti che ti accadesse in futuro? Sogni di suonare in qualche posto particolare oppure di firmare una release per qualche importante etichetta?
La cosa che mi preme di più al momento è quella di suonare ininterrottamente in più locali/club possibili. Magari avere una buona agenzia di booking che me lo permette, che si prenda cura di me e della mia musica. Voglio vedere la reazione delle persone davanti ai miei occhi, capire se stanno provando quello che sto provando io in quel esatto momento. Capire le loro emozioni, guardare i loro volti e ascoltare le loro storie. E magari sì, anche firmare una release per qualche importante etichetta.

Di seguito potete ascoltare “4ME” una delle tracce presenti nell’album Ritratto, disponibile in free download sul sito di XLR8R. Potete ascoltare e acquistare l’intero album qui.

Perché a Berlino si e a Napoli no? Intervista Unknown Crew

Napoli, centro storico più precisamente zona piazza Bellini, da sempre uno dei luoghi più vivi della nightlife partenopea. A pochi passi da lì si erge la Galleria 19 locale storico che dal 20 gennaio di quest’anno è il posto in cui i ragazzi di Unknown Crew, capitanati da Salvatore Diglio, esprimono tutta la loro essenza fatta principalmente di Techno, quella seria. Unknown Crew però non è solo una boccata d’aria nuova in una scena quasi del tutto satura, è anche molto altro; nella testa di Salvatore è forte la volontà di sensibilizzare il proprio pubblico verso un certo modo di far festa, da qui la politica del “no photo, no video” all’interno del locale. “I cellulari uccidono l’atmosfera” si legge sui loro canali social, come dargli torto? L’obiettivo quindi è quello di riuscire a vedere persone che pensano alla musica, al divertirsi ballando con gli amici piuttosto che stare perennemente con il cellulare in mano durante la festa. Purtroppo c’è bisogno di fare i conti con la realtà e se da un lato la risposta che hanno ricevuto dopo la prima festa, ospite la label romana Scuderia con un loro showcase, è stata positiva, dall’altro c’è ancora tanto da lavorare. Alcuni ragazzi non hanno rispettato questa loro filosofia e la risposta più comune è stata: “Ma dove siamo al Berghain?” No, siamo a Napoli. Perché a Berlino si e a Napoli no? È da questa domanda che si innalza un altro dei pilastri che sostengono la struttura ideale di questa giovane organizzazione, il forte senso di appartenenza alla propria città. Il sogno più grande di Salvatore e del resto dei ragazzi è quello di portare Napoli allo stesso livello di altre città europee, come Berlino. Il founder di Unknown Crew è consapevole però che riuscire in questa impresa da soli è complicato ecco perché propone agli altri promoters di abbattere gli eventuali muri fatti di conflitti di interesse e provare ad organizzare qualcosa insieme, l’idea è quella di un unico grande festival, che dia un motivo valido alle altre città di interessarsi a Napoli e ai napoletani e portare ancora più in alto il nome di questa città. Di seguito la nostra intervista a Salvatore Diglio.

Partiamo dal nome, il vostro significa letteralmente “gruppo sconosciuto”. Oggi, viviamo nellʼepoca dellʼapparire in cui il non essere dei completi sconosciuti è vitale per andare avanti, a questo punto ti chiedo: a cosa pensavi mentre elaboravi questo appellativo? Ma soprattutto, che ideale cerchi di trasmettere?
Il fatto che ci definiamo “Gruppo sconosciuto” è il nostro aspetto principale, per noi il piedistallo non esiste come concetto. Io devo essere conosciuto come Salvatore Diglio e basta non ci interessa stare alla ribalta, ci interessa essere conosciuti più per altri aspetti piuttosto che per il nome. Ciò che vogliamo trasmettere è la nostra disponibilità verso il pubblico, aiutarlo quando c’è bisogno, fargli capire che noi siamo qui per loro.

Continuiamo a parlare di identità, uno dei metodi per definire e rafforzare lʼidentità di un gruppo e far sì che i vari componenti si sentano parte di questʼultimo è lʼindividuazione di un nemico comune. Nel caso della tua organizzazione da chi è rappresentato questo “nemico comune”, chi cercate di combattere? Dando per scontato che esista ovviamente.
Se parliamo di genere musicale, sicuramente la tech house. Probabilmente il nostro nemico principale sono quelle serate che si spacciano per techno ma purtroppo non è così e ciò ci fa molto arrabbiare. Anche magari qualche artista che fa lo stesso, leggi nella loro bio “Techno” ma ciò che fanno è tutta un’altra cosa.

Quando mi sono accorto di voi, lʼaspetto principale che ho notato è una sorta di predisposizione a presentarsi come un fenomeno di nicchia, quasi come se volesse differenziarvi dagli altri guardando a ciò che già esiste come se non fosse del tutto puro. Del resto far nascere qualcosa di nuovo significa rispondere ad unʼesigenza a cui altri non hanno saputo farlo. Cosa cʼè che non va nel panorama in cui ci troviamo oggi e che magari pensate di aggiustare in qualche modo?
La cosa principale da aggiustare è la mentalità dei promoters di Napoli e non solo, forse è un problema da estendere a tutta Italia se non anche all’estero. Sono troppo accaniti sui soldi, in questo modo stanno rovinando una cultura. Noi sicuramente cercheremo di dare spazio prima ad altro, porteremo artisti come ad esempio Paramod e VCL che nessuno avrebbe forse mai pensato di portare ora dato che sono ragazzi giovani, con pochi likes su facebook, altri promoters se non vedono 10.000 mi piace non ci pensano nemmeno a chiamare quell’artista. Un altro problema è proprio questo, non c’è spazio per i giovani talenti noi puntiamo proprio su di loro e stiamo anche cercando nuovi resident, infatti con un post su facebook ho chiesto a chiunque volesse di inviarmi un proprio podcast e fortunatamente ne sono arrivati tanti, più di sessanta. Io voglio dare spazio ai ragazzi che magari ogni giorno spendono soldi per attrezzature e cose varie ma poi nessuno li chiama.

Unʼaltra vostra iniziativa che ho trovato molto coraggiosa è la politica del “no photo, no video” durante i party. È una scelta inusuale che ora potrebbe essere innocua ma pensando al futuro potrebbe essere rischiosa e causare una situazione di stallo non permettendovi di raggiungere un pubblico che comunque faccia al caso vostro ma che sia allo stesso tempo di portata maggiore, hai già pensato come risolvere questo eventuale problema?
Per me non è assolutamente un problema, io voglio restare così. Sono io che personalmente metto il bollino sulle fotocamere dei telefoni all’entrata. Alcuni ragazzi non hanno rispettato questa nostra filosofia durante lo showcase di Scuderia, perché allora rispettare il Berghain ad esempio e non il mio progetto? Perché non possiamo dire che anche qui a Napoli c’è un certo tipo di mentalità? Io consiglierei ad ogni organizzatore di Napoli di far abolire il cellulare, ma forse non ci succederà mai. In generale trovo che sia più appagante farsi raccontare le emozioni che uno ha vissuto mentre un dj passava un determinato pezzo piuttosto che farmi vedere un video.

Quindi reputi questa filosofia a tutti gli effetti il vostro punto di forza?
No, non lo considero un punto di forza. Deve essere alla base del clubbing qui a Napoli voglio che il turista che viene qui a ballare possa dire che a Napoli si vive la festa in tutto e per tutto, senza cellulare e tanta libertà.

Passiamo alla musica ora, per la vostra prima festa avete ospitato lo showcase della label romana Scuderia, con Lamanna, BR1002 e Tolebham, nella prossima sarà ospite Paramod insieme a VCL, entrambi per la prima volta in italia, che a loro volta saranno affiancati dagli italiani Undefined e Giovanni DʼAuria. Stiamo parlando dunque di techno molto potente e aggressiva che se non ti piace veramente fai fatica ad ascoltare. Innanzitutto ti ricordi quel particolare momento della tua vita in cui è scattata la scintilla tra te e questo genere?
Io ho iniziato nel 2012/2013 alla feste all’Old River anche se si trattava di techno un po’ diversa rispetto a quella che proponiamo. Forse il momento che mi ha fatto avvicinare del tutto a questo genere è stato quando ho ascoltato Leo Anibaldi durante una festa qui a Napoli. Ma la mia relazione con questo genere è partita prima che frequentassi a pieno le feste, tramite le mie ricerche ho iniziato ad ascoltare artisti che continuano ad attirarmi tantissimo come Headless Horseman, oppure Snts.

Quando, invece, hai capito che era arrivato il momento di promuoverla attraverso un progetto tutto tuo?
In realtà ci ho sempre pensato, poi ad un certo punto mi è scattata una molla anche considerando quello che stavamo subendo, ovvero dei prezzi assurdi per ascoltare un artista. Qualche anno fa iniziai a scrivere alle agenzie di booking per sondare il terreno e a contattare i vari club di Napoli e poco alla volta tutto ha preso vita. A proposito, ci tengo a ringraziare i ragazzi di Scuderia, tra cui soprattutto la fondatrice Claudia Landi che ci ha offerto una grande opportunità e ha creduto nel nostro progetto, magari qualche altra etichetta non lo avrebbe fatto visto che era il nostro primo party e fortunatamente tutto è andato bene.

Nella descrizione del prossimo evento troviamo scritto: “I cellulari uccidono lʼatmosfera, quindi assolutamente non necessari allʼesperienza nel club”. Qual è la tua idea di “esperienza” nel club che di conseguenza penso tu voglia trasmettere a chi partecipa alle vostre feste?
Uccide l’atmosfera nel senso che mi sembra di stare a un concerto di Gigi D’Alessio, in un party si balla, si parla con un amico o si va a bere qualcosa. Se io sto quei 2-3 minuti con il telefono in mano quei 2-3 minuti non li ho dedicati ad ascoltare bene un passaggio che sta facendo il dj e poi magari a fine serata le stesse persone dicono che il set non gli è piaciuto. La giusta esperienza riguarda l’ascoltare bene come sta suonando l’artista così poi posso dire se mi è piaciuto o meno.

Il 31 marzo andrà in scena la vostra seconda festa, siete una crew giovane e con ancora tanta strada da percorrere. In ogni caso è sempre possibile fare il punto della situazione, anche con pochi dati a disposizione. Come sono stati i feedback ricevuti dopo la prima? Ti ritieni soddisfatto o ti sei accorto che cʼè ancora tanto lavoro da fare e forse anche di più di quanto ti aspettavi prima di cominciare?
C’è sicuramente più lavoro da fare, ma dipende dai punti di vista. Al primo party c’è stato qualcuno che ha fatto foto o video ma abbiamo fatto un buon lavoro perché a fine serata  fortunatamente c’erano zero flash accesi ed è già una piccola soddisfazione. Però c’è sempre quella parte che purtroppo ancora non rispetta la nostra filosofia. In generale sono soddisfatto di quello che ho fatto.

Per concludere, guardare a ciò che verrà è più che lecito ma lʼimportante è non correre troppo velocemente per evitare di andare fuori pista. Quali sono gli obiettivi che pensate di raggiungere nellʼimmediato futuro?
Allora uno dei miei sogni è portare AFX, per quanto riguarda obiettivi forse più fattibili ti posso dire i British Murder Boys oppure Horseman. Ovviamente è difficile e non dobbiamo farci film mentali, ma se uno lavora non è detto che non ce la può fare. Una cosa che voglio precisare è che noi non proporremo solo Techno, cercheremo di fare qualcosa sul Noise oppure anche Gabber anche se sarà complicato ottenere risultati positivi qui a Napoli.

Next event Unknown Crew: Unknown Crew x Hard Vision [#01] w/ Paramod, VCL, Undefined & Giovanni D’auria

Sportivi che hanno cambiato la moda: fuori e dentro il campo

Sport e fashion: un connubio mai banale che è insito nelle radici dello sport professionistico mondiale.

Molti atleti si sono distinti per le loro qualità nello sport che praticavano, altri invece si sono rivelati delle icone di moda, oltre che sportive.
Facendo un’accurata analisi, bisogna risalire ad inizio secolo XX, dove il pionere della moda sportiva è stato sicuramente il tennista Renè Lacoste: vincitore di 4 grandi slam, fra cui un Roland Garos e Wibledon, ma la fama del coccodrillo che indossava sulla polo ha preso di gran lunga il sopravvento sulla sua fama di sportivo. Lacoste è tuttora uno dei brand più innovativi per l’abbigliamento tecnico-sportivo, con una linea apparel unica, che mischia le tendenze classiche con quelle piu innovative, oltre ad avere classe ed eleganza, proprio come Renè.

Rimanendo in ambito tennistico, non può passare inosservato il dominatore degli anni 80, l’americano Andre AgassiAll’americano è legato il brand più famoso al mondo, Nike, che creò una linea di scarpe proprio per il tennista americano: le Air tech challenge. Agassi incarnava lo spirito ribelle e innovativo degli anni 80, in piena rottura con lo stile metodico delle decadi precendenti. Questo particolare lo introdusse anche nella moda: non si può affatto dimenticare quando si presentò ad Indian Wells con dei pantloncini di jeans firmati Levi’s e il resto dell’outfit Nike. In questo caso, il campo si trasformò in una vera passerella.

Quando si parla di moda e sport, è impossibile non parlare di Micheal Jordan, l’icona più influente del basket professionistico degli ultimi 50 anni. Anche quest’ultimo ha legato il suo nome alla Nike, difatti, insieme  al brand di Portland, è riuscito a creare un marchio indipendente ma affiliato al tempo stesso. Il logo Jumpman è famoso in tutto il mondo, così come la sua fama da sportivo: 6 volte campione NBA con la maglia dei Chicago Bulls, una vera e propria leggenda dello sport, non solo della pallacanestro. Il legame è nato dalle scarpe, ma nel giro di pochi anni è realmente esploso in una maniera proporzionale alla sua grandezza sul parquet. Le Jordan sono un’icona, Jordan stesso è un’icona, ed entrambe sono legate l’una all’altra. 

Altro cestista che ha fatto moda è Allen Iverson. Prima scelta del draft 1996, il giovane Allen ha subito dimostrato di essere un giocatore unico, attirando l’attenzione di migliaia di fan. Era apprezzato per il suo carisma e le sue doti, con le quale lo stesso MJ fu costretto a confrontarsi. Iverson non è mai stato ben voluto dai piani alti della NBA. Il commisioner di allora, David Stern, emanò un legge chiamata Dress Code,dove i giocatori dovevano presentarsi nelle interviste post gara in giacca e cravatta. Questo particolare procedimento fu fatto proprio perchè Iverson, che all’epoca era uno dei volti principali della lega, era puntualmente vestito come un “Thug“, cioè un gangster, e per gli occhi della dirigenza questo non era possibile. Fu costretto ad indossare un tutore al braccio destro, per coprire i tatuaggi, ma quel tutore è rimasto come segno di riconoscimento, difatti dopo di lui, molti giocatori hanno iniziato ad indossarlo. Moda.

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Latin Trap: la guerra fredda ha avuto fine … ed un figlio

“Si el ritmo te lleva a mover la cabeza ya empezamos cómo es
Mi música no discrimina a nadie así que vamos a romper”
Così Beyonce insieme aJ.Balvin apre Mi Gente (Remix), successo planetario e ritmo più coinvolgente di sempre
Questi versi erano stati interpretati come frecciatine al misogino Maluma le cui tendenze sessuali saranno discusse altrove. Quello che ci interessa invece è il significato di questi versi quando a cantarli è Queen Bey.
J.Balvin ha definito questo singolo come “una canzone rappresentativa di un momento specifico e speciale dalla musica, un suono nuovo della musica latina. Un suono che elimini le barriere e che faccia muovere la testa al mondo intero, sotto lo stesso ritmo.”
Gli artisti sud americani hanno avuto più di molti altri la concezione del  globale -“Mr Worldwide, dale”- ma se prima globale era il successo adesso globale è il movimento.
Cosa lega tra loro tutti i Latin Remix che seguono i singoli di successo, Pitbull diventato un meme per i suoi featuring e Camilla Cabello a Jake La Furia ?
La contaminazione ha raggiunto uno dei suoi picchi più alti e, onestamente, più belli. Perfino la cultura Hip Hop, spesso chiusa in se stessa come a protezione di chi ha sudato per ottenere lo status di cui adesso gode, ha ceduto. I motivi del successo sono meno banali di quello che possa sembrare. Sicuramente superstar come Daddy Yankee e Sean Paul hanno aperto la pista a quest’incontro di universi, ma c’è stato un processo più lungo partito precisamente dalla Jamaica
Quando le produzioni hanno iniziato a spostarsi da 70bpm ad oltre i 100bpm, quando invece di “spezzati il collo” è arrivato “muovi il culo”, quanto il ritmo caraibico ha iniziato a iniettare il suo virus nella musica mondiale (chiedere a Drake ndr.).
Così la corrente del golfo ha iniziato a scaldare, è il caso di dire, i ritmi di tutto il mondo.
Ma dove è nato il Raggae se si procede verso la costa ci è nato anche il Raggaeton suo figlio snaturato ma comunque di sangue.
Genere spesso discriminato per le tematiche ma che in realtà nasce dallo stesso seme della urban music: il riscatto sociale e la manifestazione dell’essere (Hip Hop = Io Sono).
Artisti consigliati C.Tangana, Bad Bunny, A.Chal