Sardomuto torna a Napoli: un murale che celebra la diversità

Dopo anni di assenza, Sardomuto è tornato a Napoli a fine 2024 con un nuovo progetto artistico realizzato in collaborazione con la MET Heaven Gallery. Il suo murale, un’esplosione di colore e significato, vuole accendere i riflettori su un tema spesso trascurato: la diversità.

L’opera, situata a Salita Tarsia, raffigura una megattera sollevata da centinaia di palloncini variopinti, simbolo di un sogno che diventa possibile solo grazie alla collettività. Un’immagine potente che rappresenta come l’unione, la leggerezza e la volontà possano superare ostacoli apparentemente insormontabili.

Non è la prima volta che Sardomuto lascia il segno in questo luogo: proprio a Salita Tarsia, nel 2019, aveva già realizzato un altro murale insieme all’artista Ericailcane, consolidando così la sua connessione con la città e il suo tessuto urbano.

Con la sua sensibilità artistica, Sardomuto ancora una volta riesce a trasformare un muro in un messaggio universale, lasciando il pubblico senza parole. La sua capacità di raccontare storie attraverso le immagini ha reso il suo ritorno un evento speciale per la scena artistica partenopea.

Un ringraziamento speciale è stato rivolto all’artista dalla MET Heaven Gallery, che ha condiviso la gioia di averlo di nuovo in città e il forte impatto emotivo del suo lavoro.

Con questa nuova opera, Napoli si arricchisce di un altro capolavoro urbano, capace di far riflettere e ispirare chiunque passi davanti a questo spettacolo di colore e significato.

Cyop & Kaf si sciolgono: fine di un’era per la street art napoletana

Il duo di street artist napoletani Cyop & Kaf, attivo dal 1994, ha recentemente annunciato il proprio scioglimento. La notizia è stata resa pubblica attraverso un necrologio artistico, un manifestino funebre che recita: «Ne danno il triste annuncio gli elementi che…».

Nel corso di oltre trent’anni di attività, Cyop & Kaf hanno lasciato un’impronta indelebile nel panorama artistico di Napoli, in particolare nei Quartieri Spagnoli, dove le loro opere, caratterizzate da figure stilizzate e situazioni surreali, adornano numerosi muri e vicoli.

Oltre alla street art, il duo si è cimentato nella regia cinematografica, realizzando film come “Il segreto” e “Lievito”.

La decisione di porre fine alla collaborazione segna la conclusione di un capitolo significativo per l’arte urbana napoletana. Nonostante lo scioglimento, le opere di Cyop & Kaf continueranno a testimoniare il loro contributo creativo e l’impatto culturale sulla città.

Marracash, stare qui e ora 

0

Sono mesi ormai che esce musica a raffica: X Factor, Spotify, Instagram, Tik Tok sfornano hit che durano il tempo di uno scroll. Nell’ultimo anno è uscita più musica in un solo giorno che in tutto il 1989, e io l’ho ascoltata tutta, o almeno tutta quella che il mio Spotify e il mio algoritmo pensano che io voglia ascoltare, una sorta di dj set privato senza dj.

E allora scrolliamo anche stamattina. Anche se pensandoci è troppo presto, non ho nemmeno bevuto il caffè. Mentre ci penso mi ritrovo davanti al post di Marracash: sfondo nero, una bolla colorata che lo avvolge con tutte le sfumature primarie. Lo guardo distrattamente, continuo a scrollare. Sì, è veramente troppo presto, la moca starnutisce sul fuoco e di sentire nuova musica proprio non mi va.

Nel pomeriggio il telefono vibra:
“Lara hai ascoltato il nuovo album di Marra?”
“non ancora, com’è?”
“senti e poi mi dici”
Non un ottimo inizio. Metto le cuffiette e clicco sul mio pusher vestito di verde installato sul telefono.

La pace è finita.

13 pezzi, 46 minuti e 27 secondi di rumore dopo un silenzio di 3 anni.
Tanto rap, basi minimaliste e ritornelli cantati in italiano con dei sample che vanno da Ivan Graziani a Giacomo Puccini passando per i Pooh.
Niente annuncio per l’uscita del suo settimo album né operazioni di marketing o featuring, gesto sicuramente apprezzato ma che si appoggia sui numeri di un artista che l’anno scorso ha contato 140 mila spettatori per il “Marrageddon” solo tra Napoli e Milano.

Ma quanto è importante oggi nel rap creare un immaginario etichettatile come underground per risultare ancora credibili?

Negli Stati Uniti, il rap ha sempre trovato la sua voce nelle storie di degrado e resistenza, un’eredità che ha attraversato l’oceano e si è radicata anche in Italia, trasformandosi in un fenomeno mainstream nell’ultimo decennio. Oggi, però, il rap non è più solo una cronaca di difficoltà, ma sembra aver costruito un vero campo di battaglia, dove non è l’ambiente a nutrire il rap, ma il rap a nutrire l’ambiente.

Questa tensione, amplificata dai riflettori mediatici che osservano ogni mossa – per condannare o glorificare – alimenta uno scontro sempre più acceso tra la “vecchia scuola” e la “nuova”. E proprio in questo clima, vediamo gli artisti prendere posizioni sempre più nette, sia nei contenuti che nella strategia di diffusione, definendo il rap contemporaneo non solo come musica, ma come dichiarazione di intenti -anche-soprattutto, nella forma.

Bastavano le briciole

A più settimane dall’uscita, con il (prevedibile) successo che lo ha da subito accompagnato, viene spontaneo chiedersi: questo album può già essere definito un cult? Ma, ancora più importante, ha senso farsi questa domanda nel 2025?

“La pace è finita” è un’evoluzione naturale di “Persona”, una mutazione più che una semplice continuazione. È come se Marracash avesse voltato il lato del vinile: dall’elettricità di “Greta Thunberg – Lo stomaco” con Cosmo, passiamo a un’atmosfera più densa, dove non c’è più spazio per farci ballare mentre aspettiamo la fine. Qui le tracce sono fatte per scavare, non per distrarre.

Marra costruisce i suoi versi, dove ogni barra è un pezzo di un mosaico più grande. Parla di donne, genocidio, stato, differenze di classe e dipendenza dai social, intrecciando tutto con il pensiero di Nietzsche, che da “Persona” accompagna ogni sua rima come un producer invisibile.

In “Persona”, Marracash scrive il manifesto della sua identità: un gioco di incastri tra ordine e caos, proprio come nella “Nascita della tragedia” di Nietzsche. Qui, il microfono diventa lo strumento per scavare dentro se stesso, mixando confessione e introspezione.

Con “Noi, loro, gli altri”, cambia il beat. Il focus si sposta verso la dimensione sociale: la bolla esplode, e ciò che rimane è un mondo pieno di contraddizioni, che Marra racconta con lo stesso impatto di un freestyle, richiamando le riflessioni di “Così parlò Zarathustra”.

In “La pace è finita”, infine, il flow si fa consapevole. Non c’è più spazio per illusioni: Marracash affronta il nichilismo e lo supera, trovando nell’amor fati e nell’eterno ritorno la chiave per accettare tutto ciò che è stato e sarà. Ogni rima è un colpo secco, un drop che segna il momento in cui il rap è atto di resistenza e di rinascita.

“Gli sbandati hanno perso”, dice Il signor Lebowski a Drugo prima di spedirlo fuori dalla stanza.

Levo le cuffiette, con il tasto centrale saluto il mio pusher. Intanto, nella mente riaffiora la risposta di Drugo:

“Molto bene, il vecchio mi ha detto di prendere il tappeto che preferisco.”

Luchè live al Maradona: un evento storico per il rap italiano

0

Nel giorno del suo compleanno, Luchè ha deciso di sorprendere i suoi fan con un annuncio che entrerà nella storia: il 5 giugno 2025 si esibirà live nello Stadio Diego Armando Maradona di Napoli.

Un evento senza precedenti per il rapper partenopeo, che porterà la sua intera discografia e tutta la sua potenza artistica in uno dei luoghi simbolo della sua città. Il concerto, prodotto e distribuito da Vivo Concerti, è destinato a diventare un momento epocale per il rap italiano.

L’annuncio è arrivato con un video pubblicato sui social dell’artista, in cui Luchè corre attraverso Napoli, tra flashback di eventi di cronaca e ricordi della sua vita personale e musicale. Un viaggio che lo conduce fino al grande palco che lo attende, a sancire il suo ruolo di pilastro dello street rap nazionale.

Dopo il grande successo dei due live in Piazza del Plebiscito, che hanno fatto rivivere il mito dei Co’Sang e il recente album “DINASTIA”, Luchè è pronto per il passo successivo: una celebrazione della sua carriera in uno stadio intero, gremito di fan accorsi da tutta Italia.

I biglietti saranno disponibili su Vivo Concerti e TicketOne dalle ore 14.00 di mercoledì 8 gennaio, mentre nei punti vendita autorizzati saranno acquistabili da lunedì 13 gennaio.

Napoli si prepara a vivere una notte leggendaria, con uno dei suoi artisti più rappresentativi pronto a lasciare un segno indelebile.

L’importanza de Il Vangelo secondo Ciretta

Nella sua pubblicazione “Napoli contro Napoli”, datata 1989, Ada Becchi scriveva: “La multiformità di Napoli sembra renderla inguaribilmente contraddittoria e giustificare le interpretazioni più inconciliabili”. Raccontare le migliaia di sfumature di questa città in modo crudo ma discreto, attento e riflessivo, è un lavoro estremamente complesso e probabilmente riuscito a pochi nel corso degli anni.

Con il film-documentario “Il Vangelo secondo Ciretta” (The Gospel according to Ciretta, ndr), prodotto dalla napoletana Parallelo41 produzioni e proiettato a Bruxelles in occasione del Festival Cinéma Méditerranéen lo scorso 6 dicembre , la regista tedesca Caroline von der Tann riesce ad avvicinarsi con decisione a questo stile narrativo, offrendo un piccolo spaccato reale e senza pretese all’interno del Centro Storico di Napoli nell’arco dell’intero anno 2021, quando il mondo era alle prese con virus e restrizioni e intere comunità si reinventavano in un’ottica di solidarietà reciproca.

Il documentario pone l’attenzione sulle vicende susseguitisi nel “Teatrino” di Vico Pazzariello, in zona Santa Chiara, un ex-teatro divenuto sistemazione di fortuna per figli del quartiere “adottati” e continuo punto di ritrovo per una piccola parte della comunità locale, oltre che laboratorio didattico e musicale.

Gestori di questo spazio comunitario sono Pina (Perzechella) e Angelo (Capitano), una coppia storicamente impegnata nel sociale che proprio durante le restrizioni del 2021 catturò l’attenzione di alcuni media con la pratica del “panaro sospeso”, la cui intestazione recitava “Chi può metta, chi non può prenda”.

Perzechella e Capitano svolgono un ruolo essenziale nella quotidianità di Ciro (Ciretta), vorace femminiello di seconda generazione e inquilino del Teatrino che ora lavora come venditore ambulante. Ciretta è ben voluto da tante persone nel quartiere, grazie a una costante ed eccezionale messa in mostra di estro, fantasia e talento canoro, sia anche per vendere accendini. Oltre che dotato di una voce straordinaria, Ciretta è indissolubilmente legato alla religione e, in particolare, alla figura della Vergine e ai canti popolari: è proprio lui, spesso, a commissionare la realizzazione di statue religiose agli artigiani locali ed è sempre lui a coordinare le storiche processioni cittadine della zona limitrofa.

Il meccanismo centrale attorno al quale si sviluppa il documentario è la possibilità di sopravvivenza di una forte identità locale di fronte all’incombente turistificazione e le trasformazioni spaziali che comporta: il Teatrino, infatti, è destinato a non esistere più, rimpiazzato da un bed and breakfast; ciò che ne rimane viene spostato al centro culturale Santa Fede Liberata, così come Ciretta, sfrattato da Vico Pazzariello.

Caroline von der Tann sceglie di mostrarci in modo puro la quotidianità di questo luogo, segnato in modo evidente da un pre e da un post-sfratto: le persone, i loro pensieri, i loro volti gradualmente cambiano, spaziando dalla spensieratezza alla preoccupazione, dall’attivismo alla rassegnazione, dal sentirsi parte di qualcosa al sentirsi privati di quella stessa cosa, fatta solo ed esclusivamente per il bene collettivo. Si lascia intendere che oggi è toccato a loro, domani a chi? Quale sarà la prossima vittima identitaria e culturale dell’ingordigia del settore turistico a Napoli?

La scelta stilistica di una narrazione integrale, cruda e non filtrata si rivela vincente per tutta la durata della pellicola (circa un’ora e un quarto), ma assume particolare significato nelle sequenze relative al trasloco: sono questi i frangenti di maggior rilevanza politica, nei quali lo spettatore, spinto alla riflessione fino a quel momento, si unisce alla regista in un silente grido d’indignazione per l’attitudine ciecamente menefreghista nei confronti di un’istituzione di quartiere, di un bene collettivo svenduto in cambio del profitto di pochi. È qui che il climax raggiunge il suo apice e il documentario si rivela nel suo fine ultimo: la genialità di Ciretta e l’amore di Perzechella e Capitano in ciò che fanno sono parti integranti del tessuto socio-identitario napoletano, ma evidentemente sono ritenute sacrificabili davanti a qualche pizza fritta in più.

Abbiamo già sottolineato più volte come questa totale svendita di una città e di chi la abita corra il rischio di trasformarsi in una diseconomia, per cui gli stessi turisti venuti a Napoli in cerca di dinamiche sociali ed esperienziali a loro sconosciute vengano delusi dalla riduzione delle stesse al solo aspetto folkloristico-culinario. Tuttavia, non sembrano giungere segnali incoraggianti a riguardo, con più di 350mile presenze annunciate durante il periodo natalizio e oltre 11mila annunci sulla piattaforma Airbnb. Se da un lato preservare l’identità collettiva di un unicum come Napoli rappresenta una scelta fruttuosa in un’ottica di turismo sostenibile, dall’altro deve rappresentare un dovere morale per quella porzione di popolazione che proprio tramite questa si arricchisce.

Con Il Vangelo secondo Ciretta, Caroline von der Tann riesce a mettere a nudo il bello, il brutto e il cattivo tempo di una particolare dinamica che si sta riversando sul Centro Storico di Napoli: un capitale umano invidiabile, portatore di millenarie tradizioni popolari e di impegno concreto per la comunità, che si trova coinvolto in una lotta impari con le (il)logiche di mercato, che da un lato esercitano pressione economica e abitativa su queste persone e dall’altro proprio grazie a queste vedono i propri profitti aumentare. Lo spirito napoletanamente totalizzato e totalizzante delle persone come Ciretta, Perzechella e Capitano, è vivo e resiste sul territorio: in questa pellicola, Von der Tann ci indica i motivi fondamentali per cui è dovere collettivo difenderlo e coltivarlo.

Blu racconta la storia di Ugo Russo

Fuori dalle rotte turistiche, nei Quartieri Spagnoli di Napoli, lo street artist Blu ha realizzato un nuovo murale dedicato a Ugo Russo, il quindicenne tragicamente scomparso nella notte tra il 29 febbraio e il 1º marzo 2020.

L’opera, intitolata “Per Ugo”, è una sequenza dinamica di immagini che raccontano la vicenda del giovane, colpito mortalmente da un carabiniere fuori servizio durante un tentativo di rapina con una pistola giocattolo.

Il murale è stato realizzato grazie al contributo del comitato “Verità e Giustizia per Ugo Russo” e si propone di mantenere viva la memoria del ragazzo, sollevando interrogativi sulla giustizia e sulle dinamiche sociali della città.

Radici e sogni: la storia di Lina Simons tra Sud Italia e Londra

Incontrare Lina Simons a Milano è un’esperienza che non si dimentica facilmente.

Artista poliedrica che intreccia le sue radici tra la Nigeria e il Sud Italia, Lina rappresenta un simbolo di fusione culturale e di resilienza creativa. Trovarsi accanto a lei, circondati da una piccola folla di entusiasti concittadini partenopei, fa respirare quell’inconfondibile calore umano che solo chi è cresciuto all’ombra del Vesuvio riesce a portare con sé ovunque nel mondo. È come se Cerreto Sannita, pittoresco borgo in provincia di Benevento, stesse sussurrando al mondo una nuova musa, un diamante grezzo che non ha avuto paura di lasciare il suo nido per brillare altrove.

La storia di Lina ha i contorni di una favola moderna: a 18 anni, carica di sogni e determinazione, decide di lasciare l’Italia per trasferirsi a Londra. Qui si immerge in un mondo nuovo, tra le pagine dei libri universitari – con l’obiettivo di laurearsi in Business della Musica e Imprenditoria – e le righe dei testi musicali che scrive nei momenti liberi. Lontana da casa, Lina si trasforma gradualmente in un’artista unica, una sorta di “Nostra Majesty” partenopea, pronta a conquistare con il suo stile inconfondibile e la sua autenticità.

È un vero privilegio incontrare persone come Lina: piene di vita, capaci di sprigionare energia positiva e orgogliose delle loro origini e del loro percorso. Estroversa, con un carisma contagioso, Lina incarna un’idea di modernità che non dimentica mai le radici, ma che si proietta verso il futuro con creatività e intraprendenza.

La nostra piacevole conversazione prende vita subito dopo la sua esibizione al Festival Afrodiscendente di Milano, Blacknèss, un evento che celebra le mille sfaccettature della cultura afroitaliana. Lina, reduce da una performance carica di emozione e passione, accetta di rispondere alle nostre domande con un sorriso sincero e uno sguardo luminoso.

La prima domanda, quella più importante, diventa subito il punto di partenza per un dialogo ricco e ispirante…

Ind’ a nu munno addò stann’ tutt’ quant arraggiate, pulizz’ ‘o core, e fa’ parlà sul ‘o talento innat’”. Cosa racconta la tua ultima traccia Nun spartì a furtun?

Per diverso tempo ho visto il mondo che continuava a trasformarsi anche se in maniera negativa. Tuttavia, mi sono resa conto che per vedere un cambiamento avrei dovuto iniziare da me stessa e dalle mie aspettative. Da quando ho accolto questo nuovo approccio, le cose sono cambiate soprattutto attorno a me. In un mondo dove spesso ci si focalizza quasi esclusivamente sulle avversità è importante mostrarsi per quello che si è, evitando di farsi sempre influenzare.

Qual’è il tuo rapporto personale con Parthenope?

Parthenope è stata letteralmente colei che mi ha concesso il privilegio di entrare in contatto con la musica sin da piccola. Non solo, con il passare degli anni mi ha aiutato ad unire passione e tradizione. Insomma, un rapporto basato su gratitudine e rispetto reciproco che specialmente per la propria terra d’origine non devono mai mancare.

Mi racconteresti della tua infanzia tra influenze campane ed africane?

Crescere con più influenze culturali ti da la possibilità di imparare ed avere sempre nuovi punti di vista e stimoli da spendere in società. In Campania ho trovato tantissima Nigeria che mi ha portato ad avvicinarmi alla cultura di mia madre. Da Castel Volturno sino alla provincia di Benevento ho avuto modo di entrare in contatto con la lingua creola di derivazione inglese Pidgin, praticare le dottrine della religione materna e infine scovare l’affascinate genere Highlife che richiama la mia passione per il funk. Ricordo con affetto quelle splendide giornate passate in famiglia dove tra un disco ed un altro si viaggiava pur restando fermi. In successione, potevamo ascoltare Vai mo’ di Pino Daniele, No agreement di Fela Kuti e poi improvvisamente vedevi sbucare dal nulla Labbra salate di Gigione. Un’infanzia incredibile direi!

Quali sono i principali pregi tra Napoli, Benevento e la più lontana Lagos?

Luoghi a me cari. In ognuna di queste città è facile trovare componenti simili tra loro. In effetti, oltre al calore e l’umanità delle persone trovo davvero affascinante la spiccata arte dell’arrangiarsi. Una costante genialità che può tranquillamente riassumersi in una frase appartenente alla popolazione Sarakollé originaria dell’Africa Occidentale riportata dal Padre missionario Oliviero Ferro: “Costui è come una liana, senza occhi arriva lo stesso al di sopra del tetto”. Queste virtù mi accompagnano tuttora nel mio percorso professionale e di vita.

Stando al Global Music Report 2024 stilato dall’italiana International Federation of the Phonographic Industry la musica africana continua a stupire. Nello specifico, l’Africa subsahariana ha avuto ancora una volta la crescita più rapida di qualsiasi altra regione del continente superando un verticale +24.5% di ricavi da streaming. Una scena musicale che prende sempre più piede grazie ad artisti come il nigeriano Rema, la maliana Aya “Coco Danioko” Nakamura o ad etichette Afrodiscendenti come Native con sede principale in UK.

Come nasce L’idea iniziale della tua traccia Afrobeat Shaku Shaku. Cosa racconta di te?

L’idea iniziale di questa traccia appartiene ad una sincera sperimentazione: un brano più romantico, più intimo, che mi riportasse alle mie origini abbracciando un fenomeno musicale come l’AB. Come artista mi sento libera di esprimermi nei più disparati generi con la consapevolezza di avere delle radici ben salde che fungono da pilastro per ogni singola evenienza.

Blacknèss Milano: che sensazioni lascia la tua esibizione al Festival Afrodiscendente? 

Fantastico, super stimolante! Sempre onorata di far parte di eventi così ricchi di arte e cultura. Questi spazi sono davvero importanti per chi li frequenta: concedono costantemente ampie visuali su cui riflettere isolando al momento sentimenti come machismo, razzismo e transfobia. Inoltre, incoraggiano persone Afrodiscendenti come me a ritrovare, anche per una sola sera, le proprie radici. Spero che parties del genere non smettano mai di dire la propria. 

Napoli, Sud Italia ed Africa. Ti senti in qualche modo messaggera di questi territori? 

A dirti la verità non mi sento messaggera di popoli e/o territori, mentirei se dicessi il contrario; potrebbero individuarmi come tale e – pur essendone grata – faccio fatica a sentirmi parte di questa definizione. Sento invece, di essere rappresentante di me stessa e preferisco pensare di aver raccolto il meglio che i luoghi da te citati hanno tuttora da offrire. 

Un punto di vitale importanza in realtà esiste: cerco quotidianamente – tramite le mie esperienze di vita accumulate nel tempo – di creare un solido legame con le persone che mi supportano e che mi vogliono bene anche perché ad oggi sono ancora in una fase di apprendimento e riflessione che al momento manifesto principalmente nelle mie tracce.

La periferia come vetrina

La polarizzazione dell’opinione pubblica è un fenomeno strettamente legato al sistema economico in cui viviamo e al mondo che ci circonda: le logiche che rispondono alla necessità di accumulazione e di profitto, con l’avanzare degli anni, hanno spianato la strada alla scomparsa delle scale cromatiche e hanno lasciato in eredità, come uniche risposte a tutte le domande, le questioni e le problematiche, il bianco e il nero. Non esistono grigi, non esistono sfumature.

Sempre più spesso, visione d’insieme e completezza d’informazione vengono sacrificate sull’altare dello share, del click in più e delle interazioni, lasciando intendere al lettore/consumatore la necessità, da parte sua, di prendere una posizione radicale, possibilmente mortificando la “fazione” opposta, generando scontro.  In particolare, l’atteggiamento dei media nostrani nei confronti di questo processo è notoriamente di non belligeranza – per non dire di accondiscendenza: basti pensare al recente caso dell’atleta olimpionica Imane Khelif e ciò che ne è scaturito.

 A tutti gli effetti, l’organizzazione di un articolo, così come di un servizio da mandare in onda o anche di un semplice reel su Instagram, costituisce un’arma estremamente potente, l’enorme macchina dell’informazione è essa stessa un’arma estremamente potente. Per questo motivo, diffonderne una divulgazione e un utilizzo consapevoli e responsabili dovrebbe rappresentare il punto di partenza per qualsiasi addetto ai lavori in questo ambito.

Ciononostante, essendo la continua ricerca della polarizzazione un fenomeno in atto già da decenni, potenziato da un certo tipo di televisione prima e dai social media poi, con il passare del tempo non si è arrestata, anzi, si evolve e si manifesta in forme inedite, sempre più in linea con quello che è lo spirito dei tempi correnti.

Una di queste forme consiste in un’insistenza occasionale nella narrazione di eventi particolari. Si tratta di un’insistenza estremamente minuziosa e subdola, che affonda le proprie radici proprio nella ricerca della frattura, dell’occasione per creare fazioni e scontri ideologici poveri di contenuti.

La cronaca dei fatti diventa, pertanto, particolarmente ridondante nel momento in cui, all’importanza dell’avvenimento accaduto, si affianca la possibilità di soddisfare bisogni latenti dei lettori/consumatori. Il leitmotiv è, in realtà, molto semplice: restituire ai fruitori un’immagine degli avvenimenti quanto più simile possibile alle loro aspettative sullo stesso. Ecco, quindi, che una società di calcio coinvolta in problemi giudiziari fa notizia, perché restituisce come esatta l’impressione di uno sport corrotto: in questo caso, le speculazioni devono essere alimentate a un ritmo continuo, con l’obbligo per la macchina dell’informazione di fornire aggiornamenti continui sulla vicenda, carpire i segreti dei vari incontri, indagare a ritroso sugli antefatti.

Oltre alla natura stessa di questo tipo di diffusione di notizie, la problematica principale consiste nel fatto che non si limita, come descritto, a vicende sportive ed extra-sportive, ma abbraccia un ventaglio infinito di tematiche, anche – e soprattutto – delicate.  Le periferie sono una di queste. Dotate di particolare charme per tutte le classi sociali tranne che per quelle che vi risiedono, i quartieri difficili costituiscono per “gli altri”, coloro che “ce l’hanno fatta”, una finestra sui luoghi di produzione del male e del degrado, una finestra dalla quale risulta più convincente affacciarsi tramite il filtro mediatico e/o cinematografico che aprendola di scatto. Questo potenziale attrattivo è ben noto alla macchina informativa, attenta, negli anni, a dipingere un quadro che accogliesse e incentivasse questo tipo di atteggiamento da parte dell’opinione pubblica. Sostanzialmente, un evento tragico avvenuto in periferia assume maggior risonanza mediatica in quanto, oltre alla dovuta importanza rispetto al dovere di cronaca, alimenta e soddisfa l’immaginario creatosi con il tempo di quel tipo di luogo da parte dell’utente finale.

La periferia rappresenta per certi versi un’evasione dalla realtà che per chi non vi vive, un luogo da evitare, crudele e malvagio, in cui imperversano degrado e noncuranza. Paradossalmente, proprio per questa sua narrazione filtrata di luogo ai limiti dell’estremo, la periferia diventa accattivante, a tratti iconica. E più si narra di degrado, più si è incuriositi. Ecco, quindi, che per l’avvenimento accaduto a Scampia bisogna specificare se abbia avuto luogo o meno proprio all’interno delle Vele, così come al Parco Verde per Caivano: si tratta di luoghi entrati in modo così prepotente nell’immaginario collettivo da rappresentare una sineddoche per ciò che li circonda, ingurgitandone ed espellendone tutti gli aspetti positivi. L’effetto di questo tipo di disinformazione è un’immediata stigmatizzazione di questi luoghi, affascinanti nelle inquadrature noir e demonizzati nel momento in cui si rivelano per ciò che sono: periferie abbandonate dalle autorità, vetrine utilizzate principalmente allo scopo di comizi elettorali che vertono su sicurezza e investimenti.

Una macchina informativa funzionante, in perfetto stato, avrebbe come primo compito quello di raccontare le periferie nella loro totalità, impegnandosi a fondo nell’eliminazione della stigmatizzazione che le attanaglia, incanalandone il potenziale narrativo per mostrare le persone e i patrimoni materiali e immateriali che le circondano. Invece, dinnanzi a un evento che vede tre persone decedute e dodici ferite, così come rispetto a qualsiasi avvenimento tragico accaduto in un quartiere notoriamente difficile, la tentazione di restituire al lettore/consumatore uno specchio fedele dell’immaginario che lui stesso si è costruito negli anni di quelle zone riesce sistematicamente a prevalere su qualsiasi tentativo di cronaca seria, reale, non speculativa, in nome del “Poteva succedere ovunque e invece…”

Un altro pezzo importante di questo puzzle è rappresentato dalla foga nell’empatizzare con l’ultima ruota del carro di questi luoghi: gli abitanti/martiri, coloro “che non ce l’hanno fatta”, i “poverini”, le vittime di eventi che non sarebbero accaduti se solo fosse stata ascoltata – anche – la loro voce e se le stesse persone che ora provano un’empatia effimera nei loro confronti non fossero state così avide e convinte nell’ingerire senza compromessi la medicina mediatica, nella speranza di un minuscolo istante di gioia nel realizzare che quella zona non è la propria e che degrado e povertà sono in realtà distanti, lontani.

In conclusione, la periferia è stata culla e propulsore per alcune delle più importanti espressioni artistiche che hanno segnato gli ultimi trent’anni, legate alla musica (rap), al ballo (breakdance) e alla pittura (street art), nate spesso come un grido d’aiuto e allo stesso tempo di rivalsa nei confronti di un abbandono ingiustificato, arrivando, nel migliore dei casi, al mondo intero. La periferia insegna valori, stringe legami e unisce tutti sotto lo stesso, malconcio ma resistente, tetto. La periferia, nonostante una narrazione troppo spesso bistrattata e stereotipata, offre eccellenti capitali materiali e immateriali. A Scampia, al Librino, al CEP, allo ZEN, l’arte esiste ed è viva, aspetta solo di essere tutelata, così come le loro comunità. Non si tratta semplicemente di una tutela formale, cartacea, legale: si tratta di un complesso ingranaggio nel quale ognuno svolge la propria parte, macchina dell’informazione compresa. Street dreams are made of this.

La street art a Napoli: un viaggio tra sostenibilità, tradizione e innovazione

Camminare per le strade di Napoli significa immergersi completamente nell’arte urbana, un intreccio vibrante di storia, colore e innovazione che si svela a chiunque voglia esplorare con attenzione. Quando si parla di street art partenopea, è inevitabile pensare al celebre murale di Maradona, divenuto negli anni una delle mete turistiche più amate e iconiche della città.

Ma oltre il centro storico e le attrazioni più famose, Napoli nasconde un’infinità di tesori meno conosciuti, disseminati nei suoi quartieri, spesso raccontati anche sui nostri canali. La street art diventa così una guida alternativa per scoprire volti inediti della città.

Fuorigrotta: “Unlock the Change” di Marco Zedone

Nel quartiere Fuorigrotta, una semplice facciata scolastica è stata trasformata in un’opera visionaria. Marco Zedone, con il suo murale “Unlock the Change”, non solo decora ma contribuisce concretamente alla sostenibilità. Realizzato con eco-pitture, questo capolavoro assorbe lo smog generato da 79 automobili al giorno. Il murale raffigura una bambina che solleva un sipario, svelando un mondo migliore e più pulito, simbolo delle possibilità offerte da idee innovative e sostenibili.

Arenella: “MIEZ’A VIA” di Leticia Mandragora

Spingendoci verso l’Arenella, troviamo un’opera che unisce mito e modernità: “MIEZ’A VIA”, progetto commissionato da Voiello e realizzato da Leticia Mandragora. Partenope, madre e simbolo dei quartieri di Napoli, è raffigurata con in mano spighe di grano, icone di abbondanza e fertilità. Accanto a lei, il collettivo VNMS1926 ha rappresentato gli stemmi dei 30 quartieri della città, creando un legame profondo tra tradizione e identità locale.

Sanità: “Arricreate” di Alessandro Ciambrone

Nel cuore del rione Sanità, Lavazza ha scelto di celebrare Napoli attraverso un’installazione temporanea: “Arricreate” di Alessandro Ciambrone. Quest’opera esplosiva, che prende forma da un chicco di caffè, è un tributo alla creatività partenopea. Simbolo di estro e passione, racconta l’anima innovativa e artistica di un quartiere carico di storia.

Ponticelli: “Frequenze” del collettivo Motorefisico

Spostandoci verso l’area est, a Ponticelli, troviamo il murale “Frequenze”, realizzato dal collettivo Motorefisico. Quest’opera monumentale copre 800 mq sulle quattro facciate della stazione Argine Palasport della Circumvesuviana. Con fasce verticali e orizzontali che richiamano i colori della terra e del Vesuvio, “Frequenze” riflette il dialogo tra urbanistica e arte, parte del più ampio progetto Urbanizer, che punta a valorizzare la cultura urbana.

Scampia: “Il partigiano e il poeta” di Mono Carrasco

A Scampia, l’artista cileno Mono Carrasco ha dato vita a un’opera collettiva dal forte significato sociale: “Il partigiano e il poeta”, dedicata a Sandro Pertini e Pablo Neruda. Realizzata sulle facciate della scuola “Pertini – Don Guanella”, l’opera intreccia memoria storica e simbolismo sociale, includendo elementi ispirati allo stile di Felice Pignataro. Il progetto, chiamato “Mono Cromatico”, ha coinvolto anche gli studenti, rendendoli partecipi nella creazione di un racconto visivo che celebra i diritti fondamentali dei bambini.

Un laboratorio per la creatività urbana

I vari progetti citati dimostrano come Napoli continui a reinventarsi attraverso la street art, trasformando spazi quotidiani in gallerie a cielo aperto. Dai murales ecologici alle installazioni temporanee, ogni quartiere offre un’esperienza unica, confermando che l’arte urbana partenopea è in costante evoluzione. In tal senso INWARD avvierà un nuovo laboratorio in collaborazione con l’Università Federico II, rivolto alla figura dell’operatore culturale per la creatività urbana. Il corso è gratuito e dedicato a giovani dai 18 ai 35 anni. Puoi trovare maggiori informazioni nel post Instagram qui

La fine di un’era? Bye bye Sneaker Culture

Spesso negli ultimi anni la tematica dell’evoluzione e della storia della sneakerculture è stato un tema centrale nel mondo della moda.

I focus delle discussioni negli svariati talk sono stati sicuramente diversi, a partire dall’evoluzione del design tecnico e grafico delle sneaker, passando ai materiali ed alla relativa qualità del prodotto, arrivando alla questione dell’hype riscontrato nei clienti dei grandi brand come Nike/Jordan ed Adidas.

Oggettivamente non si può non evidenziare il pensiero strettamente negativo da parte dei principali sneakerhead, tra cui anche P.J.Tucker, su ciò che è diventata la sneakerculture e su cosa ci aspetta in futuro.

I punti fondamentali da analizzare sono sostanzialmente due: le scelte gestionali e produttive dei principali brand al mondo in merito alla produzione delle sneakers, il relativo “gioco” del resell e, infine, le continue collaborazioni futili mirate a generare introiti e/o fidelizzazioni di clienti che della Cultura e della Storia che c’è dietro questo mondo non sono minimamente interessati.

In merito al primo punto, la scelta non dichiarata pubblicamente di variare sui materiali utlizzati per la realizzazione del prodotto ha generato un malcontento generale tra gli acquirenti, che oltre a percepire una qualità inferiore del prodotto, hanno visto salire esponenzialmente i prezzi retail negli ultimi anni a discapito della qualità del prodotto.

I materiali utilizzati, a partire dall’ecopelle utilizzata, passando per i rivestimenti delle tomaie, arrivando alla gomma delle suole e intersuole sono drasticamente calati e lo si nota anche nella risposta di una scarpa “messa a terra”: la resistenza della tomaia di una Dunk Low della Nike è attualmente bassissima, oppure la pelle utilizzata come rivestimento non è assolutamente paragonabile a quanto offerto anche soltanto dieci anni fa.

Sicuramente non ci sono solo note negative da evidenziare, e di positivo riscontriamo sicuramente la produzione delle Jordan, e poi estesa a quasi tutti i pezzi Nike, in versione Gore-Tex, dove la qualità del materiale usato per la produzione non è diminuita drasticamente, ma ciò comunque si riflette su un prezzo retail generalmente più alto rispetto ai classici pezzi.

In seconda battuta, anche la decisione di abbassare drasticamente il numero di pezzi prodotti ha generato e contribuito in modo fortemente negativo sul mondo del resell, che ormai si può definire come una vera e propria giungla incontrollata, basti pensare che banalmente si è arrivati a vendere una semplice AF1 a prezzi letteralmente folli, eliminando persino i grandi stock dagli store fisici.

Questo punto, in realtà, è impattato soprattutto del fenomeno delle customizzazioni delle sneakers da parte di pseudocalzolai che hanno letteralmente affossato qualsiasi tipo di idea di collaborazione più “anime”. Chiaramente si fa riferimento alle sneakers più classiche, come appunto le Air Force 1 della Nike, modello facilissimo da smontare e ricostruire in base alle esigenze dei clienti, ma che ha portato ad una variazione ed un’attenzione diversa da parte dei reseller nei confronti della collab ufficiali, generando una catena ricorsiva di ‘eventi negativi’ sul prezzo delle sneakers.

Proprio grazie a tutta questa catena creatasi, possiamo dire che infine la pietra tombale sulla fine della sneaker culture l’ha piantata il malsano “gioco” di collaborazioni con brand, artisti o personaggi di panorami assolutamente non legati ad esso.

Tutto questo come? Creando collab su collab, spesso inutili e terribili anche in termine design/grafico, senza un minimo di storia legata alla sneaker od al personaggio, ma che hanno generato un circolo vizioso di introiti che ha distolto sempre di più gli occhi dei clienti da quella che è la base di questa cultura: la Storia che c’è dietro quella che per i più è una semplice silhouette.

Basti pensare semplicemente ad una recente uscita di Donald Trump, quando lo scorso Febbraio si è presentato allo Sneaker Con di Philadelphia per il lancio delle sue personali “The Never Surrender High Tops” dal prezzo di 399$ retail, con un resell che è arrivato a sfiorare i 10k.

Ormai sembra essere una ricorsa generale alla scarpa più costosa che offre il mercato o alla moda passeggera, come le Panda per la Nike, le Samba prima e ora le Campus 00’s per l’Adidas (che hanno ‘generato’ una perdita di circa il 30% degli introiti nel primo trimestre del 2024) ed anche le 550 della New Balance rigenerate dal grandissimo lavoro degli ultimi anni fatto da Teddy Santis.

Che piaccia o meno la strada intrapresa è questa e difficilmente si tornerà indietro e come direbbe Jayceon Terrell Taylor, per i più The Game: Hate it or Love it, bye bye Sneaker Culture, almeno per i grandi marchi!