Anna and Vulkan: vibrazioni mediterranee tra Vienna e Napoli

Anna and Vulkan artista neapolitan pop nasce a Torre Annunziata diventando negli anni cittadina del mondo. Una voce profonda ed inconfondibile che grazie al supporto della sua chitarra porta avanti un’infinita tradizione musicale partenopea. Ho avuto il piacere di incontrare l’artista al Garden Fest di Boretto in provincia di Reggio Emilia riuscendo – prima della sua esibizione – a strapparle una piacevole intervista grazie principalmente alla collaborazione con la rassegna multidisciplinare Mac Fest di Cava de’ Tirreni.

PS. Confermo e sottolineo qualora foste dubbiosi, Anna non ha assolutamente forzato le sue corde vocali durante la nostra chiacchierata!

“E amm fatt semp pace, rint a sta city nun tenev na voce. Chissà comme ess iùto, si ess rimast ca’”. Com’è raccontare Napoli nelle tue canzoni? 

In effetti, citi esattamente l’ultimo singolo prodotto in collaborazione con il collettivo italiano Fuck Pop parte integrante dell’etichetta Pluggers per cui produciamo. La traccia nasce da un’imponente necessità di esprimere la nostra visione di Napoli (provincia compresa) e, collaborando internamente con la label, abbiamo realizzato “Comme se fa (a te scurdà)”. 

Per di più, il brano evidenzia il sentimento costante di emigrazione da Napoli che viene racchiuso in una frase pilastro: “c’a Maronna t’accumpagna”. Un’indistruttibile corazza costruita su misura dalle nonne napoletane che ci accompagna tuttora nel nostro quotidiano indipendentemente che esso si sviluppi in città o altrove.

Anna and Vulkan: com’è stata l’adolescenza nel quartiere di Torre Annunziata?

Domanda spigolosa. La mia adolescenza se pur serena non si lega ad un periodo particolarmente piacevole. In provincia mi sono sempre sentita limitata sia a livello territoriale che umano. Nello specifico, ho sempre avuto un rapporto altalenante con i miei coetanei. Non voglio mentire, ho principalmente vissuto una sensazione di disagio; sentirsi come un pesce fuor d’acqua pur uscendo spesso e volentieri con i classici gruppi scuola. Tuttavia, qualcosa in me è cambiato dal momento in cui mi sono ritrovata nel mondo universitario: prima iscritta all’Università di lingue l’Orientale di Napoli e successivamente alla Scuola per Interpreti dell’Università di Trieste. Proprio in quegli istanti, ho iniziato a conoscere persone più affini al mio modo di essere. 

Dopo l’esperienza triestina arriva una nuova sfida. Cosa ti porta in Austria?

Gli anni passati in Friuli li ricordo con particolare piacere. Ad ogni modo, era giunto il momento di cambiare aria ed eccomi catapultata a Vienna. Difatti, dopo aver incontrato sane amicizie – che quando possono mi seguono anche durante i live – e conseguito la laurea mi sono trasferita in Nord Europa. Tuttavia e ad essere onesta, il primo impatto non è stato dei migliori anzi, la primissima frase da me pronunciata dopo pochi giorni è stata: “che cazzo ci faccio in territorio austriaco?”. Sono arrivata lì poco prima della pandemia da Covid19; Il continuo tormento che ti porta a pensare di aver sbagliato tutto considerando che anche per i locals è stata dura, ritrovatisi in una società ancor più scucita del solito. Ad oggi, devo riconoscere che le mie erano principalmente paure e con il passar del tempo l’Austria – di cui apprezzo tanto la sua praticità – è ora parte integrante della mia zona di comfort.

Anna cosa significa per te la parola Mediterraneo?

Personalmente, la parola Mediterraneo appartiene a qualcosa di intrinseco; si fonde con lo spirito e con l’anima. Un qualcosa che inoltre, risulta essere tangibile e che puoi ritrovare in molteplici territori a partire dalla Francia, passando per la Spagna arrivando al Nord Africa. Un po’ come una corazza che ti fa da scudo in qualunque luogo tu approdi. Noi mediterranei abbiamo la possibilità di presentarci al mondo esterno con determinati strumenti che da sempre ci caratterizzano grazie soprattutto alle varie influenze e contaminazioni che da secoli continuiamo ad assimilare.

Quali sono i luoghi di Napoli fonte di ispirazione e benessere per Anna and Vulkan?

Banalmente, ti risponderei il centro storico. Partendo da Via Toledo, passando per Santa Lucia arrivando infine a via Partenope. Se proprio devo pensare ad un luogo fonte di ispirazione e benessere penso a casa mia nel torrese specialmente nei pochi momenti di quiete (ride). Ho la fortuna di avere come sfondo il Vesuvio e dalla finestra entra una luce meravigliosa che nella maggior parte dei casi mi rilassa e mi tiene compagnia.

Ad agosto il tuo live al Festival multidisciplinare Mac di Cava de’ Tirreni. Mi racconteresti un po’ della giornata trascorsa?

Certo! Dopo Pompei è stata la mia seconda data campana. E’ stato affascinante esibirsi a Cava grazie ad una realtà come quella del Mac consolidatasi nel tempo. Era la mia prima esibizione al festival e non potevo chiedere di meglio. L’organizzazione è stata ineccepibile ed ovviamente il concerto non poteva che provocarmi una certa adrenalina. “Ci tieni a far bene soprattutto quando giochi in casa e suoni di fronte ai tuoi conterranei!”. Il momento più emozionante e divertente si è verificato a fine evento. Improvvisamente, dopo un gig ricco di momenti epici ho sentito il pubblico intonare il “bis” in tedesco, oramai ufficialmente la mia seconda lingua. Lascio ai lettori le sensazioni di quei momenti per me indescrivibili!

Intanto locali e artisti iconici napoletani come Peppe Spritz, Nennella e Gianni Simioli hanno iniziato a postare storie con in sottofondo Anna and Vulkan. Che effetto fa?

Curiosità e magia. Dopo l’uscita del primo singolo “Comm’è” si è accesa in me una certa euforia dal momento in cui ho notato che i locali ed artisti da te citati hanno iniziato ad interagire con la mia musica. Non ero per nulla abituata e ti lascio immaginare la meraviglia. Inoltre, quando un’icona radiofonica nazionale come Gianni Simioli ti inserisce per ben due volte nelle sue playlist percepisci un certo affetto che ti sprona a ritrovare quella connessione viscerale con Napoli e le sue infinite sfaccettature.

Femminiello napoletano: Andrea Fortis racconta una tradizione secolare

Alla 10a edizione del Festival internazionale Visioni dal Mondo – tenutosi al Teatro Litta MTM di Milano – ho avuto il piacere di assistere alla presentazione del documentario Femmenell diretto dal regista romano Andrea Fortis.

Un percorso di ricerca sociologica che immerge lo spettatore all’interno della figura transgender del femminiello napoletano attraverso la cultura popolare partenopea. Grazie all’atto primo – tenutosi in città e premiato con il riconoscimento Rai Cinema dedicato al giornalista Franco Scaglia – ho avuto il piacere di scambiare due chiacchiere con Andrea.

La figura del femminiello: inclusione e rappresentazione del patrimonio urbano napoletano. Quali valori eredita la città di Napoli?

Una domanda articolata. Il femminiello napoletano si lega ad una cultura estremamente antica che risale ai tempi della Magna Grecia presentandosi ai giorni nostri attraverso i propri inevitabili mutamenti. Una figura non binaria che continua ad essere valorizzata in particolare per la sua unicità e la sua trasparenza raccontando uno spartito del quotidiano partenopeo e internazionale. Napoli, essendo un luogo di mare: integra, assimila e trasforma; una ricchezza tipica di città portuali come ad esempio Genoa o Marsiglia. 

Tra le espressioni spirituali più partecipate e sentite in Campania esiste quella della Candelora che ogni due febbraio viene celebrata tra danze tradizionali, canti popolari, preghiere e benedizione dei ceri.

Mamma Schiavona e la juta di Montevergine. Andrea che emozione traspare da riti così sentiti?

Bisognerebbe chiederlo a persone come – l’ospite e protagonista del docufilm – Ciro Ciretta Cascina o al re della tammurriata Marcello Colasurdo (pace all’anima sua) che hanno sempre vissuto con grande passione il rito della juta (salita verso il Santuario di Montevergine). Personalmente, una volta arrivato in cima alla montagna ho percepito una forte connessione tra popolo e territorio, come una sorta di ascensione. Lì, sono rimasto soprattutto affascinato da un rito, quello della danza tradizionale che alterna devozione, cultura e che ha il potere di rigenerare corpo e mente. Una ballata su canti popolari dove dei movimenti circolari portano quasi a perdere coscienza e allo stesso tempo scrollare pesi inutili da dosso. Ritornando ai giorni nostri è un po’ come andare in un club sfrenandosi e ballando ininterrottamente su pattern elettronici sino a ritrovarsi in quella sensazione di nirvana.

Pino Daniele, Fabrizio De Andrè e Tommaso Primo. Diverse epoche a confronto che omaggiano e raccontano, a modo loro, temi legati alla fluidità di genere. Qual’è il tuo punto di vista?  

Una partecipazione quasi sempre esistita che si rinnova di volta in volta grazie principalmente a chi la narra. Diamo quasi per scontato che in giro per il globo esistano solo figure binarie, in realtà non è proprio così. Difatti, ad oggi stiamo riscoprendo tutto ciò grazie soprattutto al lavoro di studiosi e artisti che aiutano il processo di curiosità e comprensione. Inoltre, sono tante le società al mondo che contemplano il genere non binario. Diversi esempi: i femminielli a Napoli, i Nat-Kadaw in Birmania o Le Muxes nel Messico del Sud. Esempi simili e soprattutto più vicini alla nostra cultura si possono trovare nei Balcani con le Burrnesha: donne che per motivi di emancipazione decidono di vestirsi da uomini e tali vengono identificati all’interno della società.

Una volta conclusasi l’intervista io e Andrea, continuando la nostra chiacchierata, ci siamo nuovamente emozionati pensando all’immenso regalo di Ciro Ciretta Cascina che – nel teatro milanese dell’MTM – ha introdotto noi e il pubblico alla sua libera interpretazione de La Livella del principe Antonio de Curtis dove abbiamo assistito ad un vero e proprio scambio di informazioni emotive.

Chillo è nu buono guaglione e vo’ essere na signora, chillo è nu buono guaglione crede ancora a ll’ammore…

Che Fernandinho mi è morto in grembo, Fernanda è una bambola di seta, sono le braci di un’unica stella, che squilla di luce di nome Princesa…

Oi signurina quanto ve pigliate, v’avverto si ve acchiappo so ‘nu squalo, So vinte pe’ ‘na pella e ‘nu grattino, v’avverto ca me chiammo Pasqualino…

I Fujenti, attraverso gli occhi di Jake Hartwell

Jake Harwell a.k.a. HarteBlanche è un fotografo inglese il cui amore per Napoli è evidente in ogni suo scatto.

Nonostante i molteplici impegni che lo coinvolgono nella sua terra natia, Jake ha coltivato una passione profonda per Napoli di anno in anno, vivendo la città in ogni sua sfumatura. Tra i vari progetti svolti, spicca la collaborazione con BlackBox Store per la realizzazione di Tales From Underground.

Ad oggi, dopo anni di studio e ricerca ha scelto di scattare i Fujenti, un progetto che promette di catturare ulteriormente l’essenza vibrante e affascinante della città e soprattutto del suo rapporto con la fede.

I “Fujenti” sono i devoti che partecipano alla processione religiosa della Settimana Santa a Napoli. Una tradizione, particolarmente radicata nella cultura napoletana.

Quando e come ti sei avvicinato alla fotografia?

Le mie radici nella fotografia provengono da mio padre, che era un fotografo alla fine dei 20 anni. Ho sempre avuto una macchina fotografica fin da bambino, ma ho iniziato a fotografare “consapevolmente” intorno ai 16 anni. A 18 anni mi sono trasferita a Londra e ho iniziato a documentare le sottoculture, soprattutto nell’ambito della moda.

Da dove nasce l’amore per il Napoli?

Non so, ma forse è arrivato il momento di mettere le cose in chiaro.

I miei zii hanno sempre amato l’Italia e hanno finito per acquistare un appartamento in Toscana, vicino a Lucca. Ci andavo ogni anno per una vacanza, ma in un sonnolento villaggio di montagna senza wifi era più una “vacanza di riposo”. Un giorno trovai nella libreria il libro Gomorra di Roberto Saviano e credo di averlo letto in due giorni. In quel periodo, quando tornai, la serie cominciava a essere pubblicizzata e così iniziai a fare ricerche su Napoli.

Napoli in quel periodo aveva un vero e proprio marchio per gli stranieri grazie ai giornali, ma io mi sono interessato subito. Amo la storia e l’archeologia, di cui Napoli è ricca, così negli anni ho continuato a leggere di questa città misteriosa.

Non avevo però conoscenze e, pur avendo viaggiato molto, sono rimasto lontano da Napoli fino a quando non ho saputo che c’erano persone che potevano mostrarmi la città. Poi, per caso, ho incontrato due ragazzi a Londra, Valerio e Rosario, grazie a una delle collaborazioni di sneaker a cui avevo lavorato, e così è iniziato tutto.

Con il mio italiano incredibilmente elementare e il napoletano imparato da solo guardando tanto Gomorra, ho prenotato alcuni voli e ho scoperto questa meravigliosa città.

Da TFU ai Fujenti, sei spesso a Napoli, ricordi la tua prima volta qui? Come hai costruito e come si è evoluto nel tempo il tuo rapporto con la città?

Guardando il mio rullino fotografico, stavo costruendo connessioni dal 2016, ma il mio primo viaggio è stato all’inizio del 2019. Sono stati solo pochi giorni, ma sono stato riportato indietro dall’ospitalità dei ragazzi, ho visto tutto quello che avevo visto in TV, ho mangiato nei “posti” e sono stato portato in giro in moto. È stato incredibile. Grazie all’amore per lo streetwear e per le scarpe, si sono create delle relazioni e attraverso instagram sono entrato in contatto con sempre più persone di Napoli.

Da quel momento Napoli è diventato il luogo in cui fuggo quando di solito la mia testa è impazzita e ho bisogno di resettare. Qualcosa nel caos mi calma. C’è un’energia in quella città che non ho mai sperimentato in nessun’altra parte del mondo. Negli ultimi 5 anni ho esplorato ogni angolo della città per capire meglio la sua vita.

Oggi si parla molto di stranieri che approfittano di Napoli per progetti personali con fini commerciali. Cosa ne pensi?

Ma si o ric semp si

quand t ven a piglià

è più facile il suo gioco

dopp torn a t lassà

Quello che stiamo vedendo a Napoli è che le stesse case di produzione fanno quello che è “facile”, così che i fotografi di moda di alto livello arrivino a Santa Lucia e fotografino una zona in cui la brava gente onesta passa i pomeriggi, e così iniziamo a vedere le stesse facce, già riprese molte volte dai locali per amicizia e amore.

Così ora abbiamo 10 scatti di una modella che si tiene il viso in un bikini prodotto in serie che nasconde un capezzolo con Enzo e Luca sullo sfondo oliati, presi da un servizio fotografico.

Questo è un problema delle agenzie pubblicitarie e dei media qui a Londra che operano nel settore dell’alta moda. Gli stessi che pagano 30.000 dollari a un non italiano ma 2.000 per un ragazzo.

Tendo a tenermi alla larga, ma anche quando scorrevo instagram e ho visto un servizio recente, ho detto “ci risiamo”.

Con il mio tipo di lavoro, faccio foto per me stesso. Non faccio foto per soldi. Certo, produco alcune stampe e sto lavorando ad alcuni libri, ma questo rientra in un’altra categoria ai miei occhi. Ma con tutto ciò che faccio, catturo tutti i lati di Napoli.

Penso che se le persone vogliono fare del lavoro in città nel tempo, è fantastico, ma si possono sempre individuare le persone sincere. Mi viene in mente una delle prime invasioni napoleoniche di Napoli e 300 lazzaroni che difendevano il porto da 80.000 francesi.

Soffermandoci sull’ultimo progetto, cosa ti ha spinto a fotografare Madonna dell’Arco?

La Madonna dell’Arco mi affascina molto. Non solo la festa annuale, ma anche le processioni settimanali sono un’opera d’arte così bella da vedere con gli occhi. Una danza poetica che è veramente bella.

Trascorrevo molto tempo nei Quartieri Spagnoli ed è diventata una sorta di sigla, con la batteria e il sassofono. Poi ho fatto molte ricerche sulle sue origini e ho visto le differenze tra ogni processione di Napoli e delle città circostanti. Adoro anche la tradizione popolare napoletana e la tammuriata, che vanno di pari passo.

Come nel caso della festa della pasquetta, vedere qualcuno che crolla e ha le convulsioni lascia un ricordo indelebile.

Non posso inoltre trascurare il fatto che in questo caso, come ho detto nel mio progetto la festa è un’intrigante miscela di sacro e profano. Due folle di partecipanti che vedono la religione con gli stessi occhi, ma con connotazioni diverse. Quelli che la religione serve come rituale quotidiano e quelli che la religione serve come perdono, pentimento e protezione per attività solitamente nefaste”.

Qual è invece il tuo rapporto con la religione?

Sono sempre stato interessato alle religioni, alle loro origini e ai loro significati. Non sono mai stato religioso, tuttavia sono spirituale e credo in un’esistenza più grande, ma ci sono troppe contraddizioni nelle religioni inglesi di oggi. Ho il volto di Gesù sul braccio per ricordarmelo. Ma sono una persona che rispetta le persone e rispetterò il punto di vista onesto di chiunque. La religione in Italia è la vita stessa e io l’adoro.

La fede è qualcosa di intimo. Com’è stato fotografare durante la processione? Ti sei presentato ai soggetti che hai fotografato?

Credo che molte persone fossero divertite/interessate a vedere una persona evidentemente inglese con una grande macchina fotografica. Ho deciso consapevolmente di indossare una giacca degli Yankees. “Tu sei americano? No signora, sono inglese”.

Ho avuto alcune conversazioni con partecipanti anziani e anche con adolescenti che non riuscivano a capire perché fossi lì. Per i fujenti, rappresentare l’associazione è una cosa importante, l’orgoglio è enorme. Solo poche persone hanno rifiutato una foto.

Non avevo mai visto una cosa del genere, una tale massa di persone che si riuniva per la madonna. Sono stato incredibilmente grato di essere lì e ho sentito la “pace”. Perché questa vita è fatta di amore, fede e unione.

“Those who run” sarà solo online o ci saranno altre sorprese?

Fa parte di un’idea più ampia che ho e che spero di riuscire a mettere insieme in molti anni. “Those who run” aveva bisogno di essere completato per il mio benessere dopo molti anni di lotte haha. Per me è stato il mio pellegrinaggio. Sono davvero grato per le connessioni che ho creato nella vostra città e vi sosterrò sempre.

Riportare Napoli sulla mappa: il culto de Le Scimmie

0

Nel 2012, per i napoletani e gli amanti del rap in generale, il giorno di San Valentino ebbe un solo significato: “Antonio Riccardi e Luca Imprudente, in arte Co’Sang, dopo 15 anni di collaborazione hanno deciso di dividere le loro strade artistiche sciogliendo i Co’Sang”.

A partire da allora, la centralità di Napoli nel panorama rap italiano ed europeo perse il suo punto di riferimento: il duo, infatti, vantava già nei primi anni 2000 collaborazioni sparse con l’altro leggendario gruppo italiano, i Club Dogo e, in Vita Bona (2009) si assiste alla partecipazione, nelle tracce “Casa Mia” e “Rispettiva Ammirazione” dei rapper francesi Monsi du 6 e, soprattutto, Akhenaton, parte degli IAM.

Da quel momento iniziano anni in cui è difficile pensare a Napoli come una delle capitali d’espressione artistica sottoforma di musica rap dialettale: vi sono principalmente i progetti individuali di ‘Ntò e Luchè e la coppia composta da Rocco Hunt e Clementino a mantenere la barca a galla prima della rivoluzione trap del 2016, che pure vedrà in Enzo Dong e nel suo stile ultraenergico e dirompente uno dei suoi principali artefici e portavoce.

Tuttavia, in tutti questi esempi menzionati la componente dialettale è sempre ben presente, ma mai centrale: Napoli c’è, il napoletano anche, ma più che base dalla quale ripartire somiglia a un plus per i vari artisti, capaci di esprimere il proprio estro anche in un’altra lingua, non necessariamente ponendola al centro dei propri progetti. È a partire dal 2018 che, complice soprattutto l’ascesa di Geolier e la sua prepotenza nell’affermarsi in modo totalizzante, Napoli e il napoletano tornano definitivamente alla ribalta nel panorama musicale rap e non solo.

Eppure, qualcuno che aveva anticipato i tempi c’è stato. Sulla scia del collettivo 365 MUV e come anticamera della recente SLF, nel 2016 Vale Lambo e Lele Blade traducono in instant cult le produzioni di un giovane Yung Snapp e consegnano ai club, agli appassionati e all’intera scena una ventata di freschezza che fa della lingua napoletana il suo punto di forza, come non accadeva da ormai qualche anno.

Grazie all’appoggio dell’etichetta Dogozilla Empire, viene rilasciato l’album El Dorado, inizialmente in versione standard e poi in versione deluxe con quattro tracce aggiuntive (2017), come primo e unico progetto sotto il nome di “Le Scimmie”.

Con chiara ispirazione ai PNL francesi, ritmica e barre sono in sintonia con lo scossone prodotto in quel periodo dall’industria musicale, ricalcandone vibes e atmosfere, mentre i flow utilizzati e le linee melodiche risultano essere estremamente innovativi e catturano l’attenzione del panorama italiano.

La versione deluxe dell’album presenta un totale di 15 canzoni con 5 featuring di livello (Jake la Furia, Izi, Ntò, Vegas Jones, Clementino): dalle leggere “Pronto chi sij?” e “M.o.e.t.” si spazia fino alle crude e iconiche “We We” e “Mia”, vere e proprie cronache melodiche di dinamiche di strada, in uno stile che abbina produzioni quasi ascetiche e rime brusche, creando l’ambiente ideale per intraprendere un “viaggio”, un mix fino a quel momento mai sperimentato in Italia. Il merito innegabile di questo lampo nel panorama musicale è quello di aver compreso e sfruttato a pieno, con anni di anticipo, le potenzialità artistiche e melodiche del napoletano, portandolo all’interno della scena nazionale svincolato della sua necessità di presupporre “Poesia Cruda”.

Dopo tanti anni, si assiste a un progetto musicale interamente in lingua napoletana che riesce ad entrare nell’immaginario collettivo di una generazione a livello non più solo locale: questa volta, però, l’iconicità deriva non dalla crudezza delle barre e delle tematiche sociopolitiche trattate, bensì dalla capacità di introdurre novità melodiche e linguistiche in una fase di forti cambiamenti per l’intera industria.

Con le sue ambientazioni al limite del mistico e i flow storici di Vale Lambo e Lele Blade, El Dorado è l’anticamera dell’inizio di un periodo particolarmente fruttuoso per il rap partenopeo, iniziato con i progetti immediatamente successivi dei due artisti del gruppo (“Angelo” e “Ninja Gaiden”) e culminato con la presenza al Festival di Sanremo di Geolier, a 7 anni di distanza. L’industria musicale ha ormai ben compreso le possibilità offerte dalla lingua napoletana: con gli stessi Geolier e SLF, senza dimenticare Luchè e la sua BFM, il suo utilizzo è ormai sdoganato a livello nazionale e non costituisce – quasi – più un tabù. Tuttavia, se la situazione oggigiorno è così florida, è anche a causa dei suoi precursori, coraggiosi nell’osare e nel rivendicare appartenenza in un momento non propriamente facile per l’intero ecosistema musicale partenopeo.

Le Scimmie e la loro attitude sono state l’equivalente di un fulmine: rapido ed estremamente incisivo, nel mezzo della tempesta. El Dorado, invece, costituisce un instant cult, un album manifesto di quello che i tedeschi chiamano “Zeitgeist”, lo spirito dei tempi, l’aria respirata nella Napoli musicale e dintorni a cavallo tra 2016 e 2017: irriverente, vogliosa di ribalta, innovativa. In una parola, iconico.

Petit: un nuovo singolo per consacrarsi

È stata un’estate di successi per Petit, giovane artista che unisce le sue radici napoletane e francesi in un suono molto personale. Dopo il disco d’oro per “MAMMAMÌ”, prodotto da Dardust, Petit torna con il nuovo singolo “LINGERIE”, sperimentando nuovi sound e mostrando il suo lato più introspettivo.

Da un freestyle su Instagram ad un disco d’oro, passando ad Amici. Abbiamo intervistato Petit per andare più a fondo nel suo rapporto con la musica.

Ciao Petit, come va? A breve esce il tuo nuovo singolo, già spoilerato su TikTok, com’è stata la risposta?

Ciao! Tutto bene grazie. Sì, la risposta è stata positiva, sono felice di come è stato accolto già quel piccolo assaggio. Le persone che mi seguono, ma anche chi non mi conosceva prima, mi hanno fatto sentire tanto calore. Dai commenti che leggo, in tanti stavano aspettando la canzone e io non vedevo l’ora di fargliela sentire.

Come vivi questa uscita? Hai delle aspettative? 

Questa uscita la sto vivendo bene, sono molto tranquillo. Non ho aspettative, non me le sono mai fatte. Io credo nel pezzo e sono felice di come sia uscito, questa è la cosa principale. Spero arriverà, come è arrivato a me, anche alle persone che mi supportano, spero che piaccia anche a loro.

Guardando il tuo percorso dai social vediamo che il primo post è un freestyle. “HO FATTO 18 ANNI MA MI SENTO ANCORA PICCOLO”, non è passato tanto tempo ma hai un disco d’oro in bacheca ed una carriera avviata, come ti senti? Ancora piccolo? 

Quella frase mi rispecchia molto, il fatto di crescere ma rimanere bambino. Voglio continuare a sorprendermi di tutto e ad essere sempre contento. Questa è la cosa più bella secondo me, un mio grandissimo punto di forza. Non penso troppo ai numeri, a quello che verrà dopo. Cerco sempre di vivermi il momento, di essere ingenuo in senso positivo.

Parlando della tua carriera è inevitabile parlare di Amici, ad oggi il rap/l’urban è abbastanza sdoganato nei talent. Raccontaci la tua esperienza.

Io ad Amici ho portato l’urban e il pop, quello da cui vengo, con cui sono cresciuto. Penso che la musica sia bella proprio perché si può spaziare tra generi e scenari: chi si rispecchia in un determinato genere deve assolutamente crederci, provarci.

In questa carriera sta per arrivare il primo tour, come ti stai preparando? 

Mi sto preparando al meglio, ma lo sto facendo con molta serenità. Sono carichissimo, non vedo l’ora di salire su quel palco, divertirmi e far divertire tutte le persone che sono venute lì per me. L’importante è uscire da ogni data soddisfatti, sia io che i miei fan.

Superato il tour, che programmi hai? 

Superato il tour sicuramente tornerò a scrivere, ne sento proprio il bisogno. Poi tireremo le somme e vedremo cosa succederà.

Come ti sei avvicinato alla musica, chi sono gli artisti o gli album che ti hanno formato?

La musica ha sempre orbitato intorno a me fin da piccolo, mamma e papà mi facevano ascoltare Pino Daniele, Califano. Ho iniziato a scrivere all’età di 14 anni e da lì non ho mai smesso. E’ una cosa che mi ha sempre fatto stare bene.

Co’Sang, nun è mai fernut

Se si parla di cultura urbana a Napoli, non si può non parlare dei Co’Sang.

La città partenopea ha sempre sfornato hip hop, Napoli è hip-hop, ma l’impatto del duo dell’area nord è unico e rappresentano molto di più di un semplice gruppo rap. Dal 14 febbraio 2012, dopo il loro scioglimento, le speranze di rivederli insieme erano davvero poche. Eppure, in questo 2024, è stata riscritta la storia, aprendo un nuovo capitolo.

I Co’Sang sono tornati ed è arrivata nuova musica. Prima dell’annuncio dell’album, si è parlato in un articolo di “tempo di verità”, e ora, con l’uscita del nuovo album Dinastia, si apre una nuova fase della loro carriera. Un progetto che ha richiesto tempo per essere davvero compreso e giudicato, data la lunga pausa e il cambiamento del panorama musicale negli anni trascorsi dall’ultimo disco.

Rap serio, del 2024

Con Dinastia, i Co’Sang presentano un’opera che racchiude tutte le sfumature del rap moderno del 2024. La qualità delle produzioni e delle rime è impeccabile, dimostrando l’evoluzione del duo e la loro capacità di restare al passo con i tempi, senza perdere l’autenticità che li ha sempre contraddistinti. È un disco che suona fresco, ma coerente con il passato, del gruppo e delle loro carriere da solisti.

Nonostante la raffinatezza del progetto però, alcuni elementi iconici del vecchio stile dei Co’Sang sembrano mancare.

Le parti parlate, un tratto distintivo degli album precedenti, che immergevano l’ascoltatore direttamente nelle strade di Napoli, come i campioni in Buonanotte Pt.1 o in Casa Mia, qui risultano assenti. Tuttavia, dopo oltre dieci anni, i Co’Sang hanno scelto, anche giustamente, di parlare solo attraverso le rime.

Ma il vero punto debole dell’album è l’assenza di uno storytelling che racconti la città di oggi, un elemento fondamentale nei dischi precedenti. Manca quel racconto diretto della realtà contemporanea che in passato li ha resi iconici, quel tipo di verità a cui si faceva riferimento nell’articolo pre-Dinastia.

La verità che non ci si aspettava

Con il nuovo album i Co’Sang, invece, portano un’altra verità: un rap che continua a essere magnifico, fra tecnica e sonorità.

La “verità” che emerge da questo terzo album non è quella del passato, ma parla di un rap di alta qualità, in un’epoca in cui la musica viene consumata rapidamente e dimenticata altrettanto velocemente. La stessa qualità, che finalmente porta i Co’Sang in classifica al primo posto in classifica FIMI.

Una dinastia senza fine

Dinastia non è solo un titolo, ma una dichiarazione d’intenti. I Co’Sang sono tornati per dimostrare che il loro impatto sulla cultura urbana non è mai finito. L’evoluzione è evidente, ma il legame con le loro radici e il pubblico rimane forte. Anche se mancano alcuni elementi del passato, l’essenza resta intatta. Questo album segna un nuovo capitolo nella storia dei Co’Sang e dimostra che, anche dopo tanti anni, la loro eredità nun è mai fernute.

The Fisherman, il Ghana fra tradizione e modernità – (Intervista a Zoey Martinson)

Zoey Martinson, scrittrice e regista di origini africane lega i suoi lavori al tema della Diaspora e tra Africa, Londra e Stati Uniti creando un filo conduttore che porta ad un immaginario esotico dove il continente africano si mostra fra tradizione e modernità.

Ho incontrato Zoey alla Biennale di Venezia durante l’official screening del film ghanese da lei diretto, The Fisherman. Si tratta di una favola moderna ambientata in un pittoresco villaggio di pescatori, dove le tradizioni si mescolano con la cultura giovanile e i social media, come TikTok, creando un affascinante contrasto.

Durante il Q&A post-proiezione, Zoey ha condiviso riflessioni sul processo creativo e sulla volontà di raccontare storie radicate nella realtà africana, ma con una prospettiva globale. Alla fine dell’incontro ho avuto il piacere di scambiare due chiacchiere con lei, rimanendo colpito dalla sua passione e visione innovativa.

Cosa significa per te il Ghana?

Per me il Ghana è come un affettuoso abbraccio che si ripete di volta in volta. Un territorio pulsante ed accogliente ricco di valore umano. La capitale Accra è fantastica ma il vero Ghana – dove entri in contatto con persone di una semplicità unica – lo trovi nei villaggi, ed è confortante essere a conoscenza di queste realtà.

Mi trovavo lì al momento della scomparsa di mio padre e sentendomi spaesata ho subito notato un affetto smisurato della popolazione locale provando così a rimarginare le ferite. Il Ghana è il luogo dove potermi rifugiare, la mia zona di comfort sulle lunghe rive dell’Oceano. 

Ho trovato un film ricco di riferimenti alla cultura urbana. Come hai deciso di introdurla e in che modo?

Avevo la necessità di rappresentare l’attuale Ghana soprattutto attraverso la cultura urbana. In effetti, basta muoversi nei mercati generali o nei villaggi di pescatori per vedere ragazzi ma anche adulti avventurarsi in simpatici tiktok o magari trovare la venditrice ambulante di turno che attraverso internet impara nuove tecniche di vendita. Adoro raccontare questo aneddoto; prima di iniziare le riprese del film siamo stati accolti dal capo villaggio di Butre (piccolo Distretto Municipale nell’Ahanta dell’Ovest, Ghana) per rendere i nostri omaggi con la speranza di ricevere l’approvazione a girare.

Detto fatto, avevamo di fronte un cinefilo che ci ha subito svelato la sua passione per il cinema. Difatti, il village chief ha subito approfittato della nostra presenza per mostrarci un’intera lista di film internazionali che, con l’aiuto di un umile proiettore, vengono di volta in volta trasmessi nel villaggio dove le persone si riuniscono creando un’atmosfera leggera e spensierata. 

Ad oggi quando si parla di Africa ancora percepisco futili stereotipi da abbattere. In particolare, non è stato ancora idealizzato quanto il continente africano sia tanto accessibile quanto moderno. Internet e la tecnologia in generale riescono ad essere alla portata di tutti così da poter raggiungere ogni angolo della terra attraverso un semplice click percependo così un confronto quotidiano con differenti culture.

Vivendo attualmente in America posso confermare che questo scambio di informazioni riesce a dare tanta visibilità al popolo ghanese riscuotendo successo ed orgoglio nazionale. Soprattutto dal momento in cui usi e costumi della nostra tradizione compaiono su pellicole globali strappandoci magari anche due sane risate.

Secondo il tuo punto di vista, ad oggi esiste un’accesa discordia tra tradizione e modernità in Ghana? In che direzione si sta andando?

Non sono così sicura ci sia un’accesa discordia tra tradizione e modernità e non so neanche se sia così necessaria. É evidente che ci ritroviamo di fronte ad un notevole cambiamento epocale; quello che mi auguro è che ci sia sempre razionalità a livello societario anche perché usi, costumi e tradizioni rendono il territorio vivo e indennitario a favore di un possibile sano mutamento.

Un esempio su tutti riguarda una delle ultime scene del film che ovviamente non possiamo spoilerare. Quello che però possiamo dire di questo progetto è che troverete una sfida avvincente tra diverse generazioni e mentalità. 

Summer Ritual, Angelo Formato fra tradizione e innovazione

Il progetto “Summer Ritual” di Angelo Formato è un’esperienza visiva che intreccia con maestria tradizione e innovazione, catturando la ricca eredità culturale del Sud Italia attraverso l’obiettivo dell’intelligenza artificiale.

Ispirato dalla tradizione familiare delle conserve di pomodoro, un rituale che segna la fine di agosto in molte famiglie italiane, Formato riesce a immortalare l’essenza di un evento che va oltre la semplice preparazione del cibo, rivelando il cuore pulsante di una comunità.

Le immagini del progetto, generate con l’ausilio dell’AI, mostrano scene di riunioni familiari multi generazionali, dove la gioia del lavoro condiviso si mescola ai colori vivaci dei costumi e degli accessori a tema pomodoro. Ogni immagine è una celebrazione della semplicità e della profondità di queste usanze, tramandate di generazione in generazione. Le scene rappresentano non solo momenti pratici di preparazione delle conserve, ma anche ritratti artistici in cui la tradizione incontra il contemporaneo, evidenziando un dialogo armonioso tra eredità culturale e stile moderno.

Angelo Formato è un fotografo napoletano, la cui passione per la fotografia lo ha portato a Londra nel 2012 dove ha iniziato la sua carriera. Dal 2020 è tornato stabilmente in Italia integrando fotografia e intelligenza artificiale, creando un ponte tra fotografia tradizionale e innovazione digitale.

Oggi, con il suo nuovo progetto, vuole omaggiare la sua terra e la sua gente, celebrando la bellezza senza tempo della conservazione del patrimonio culturale. “Summer Ritual” è un progetto che parla di famiglia, comunità, inclusività e di un legame profondo con le proprie radici, presentando il rituale della conserva come un atto d’amore e rispetto verso la tradizione.

Com’è nato il progetto?

Il progetto nasce da un desiderio molto personale: ogni anno nella mia famiglia si è sempre portata avanti una tradizione che univa tutti, soprattutto durante il periodo di fine estate. Erano momenti speciali, soprattutto grazie ai miei nonni, che riuscivano a rendere tutto più magico. Purtroppo, da quando non ci sono più, queste scene mancano terribilmente. Ogni anno, in questo periodo, non posso fare a meno di pensarci e di sentire la loro mancanza.

Come mai l’intelligenza artificiale?

Ho voluto catturare le immagini che ho nella mente e darle un twist più moderno, utilizzando l’intelligenza artificiale. Ho scelto l’AI proprio per la sua capacità di prendere i ricordi e trasformarli in qualcosa di nuovo, mantenendo comunque il legame con il passato. Usarla è stato un modo per onorare quei momenti, rivisitandoli attraverso una lente contemporanea, cercando di riportare in vita quelle emozioni, anche se in una forma diversa. È stato un processo emozionante e un po’ nostalgico, ma anche un modo per mantenere viva la memoria di quei giorni.

Mare Libero, fra denuncia e fotografia con Ciro Pipoli

Il rapporto fra Napoli ed il mare lo conosciamo, ne abbiamo scritto in passato e continueremo a scriverne in futuro. Questo legame, antico e profondo, è al centro del nuovo progetto fotografico di Ciro Pipoli: Mare Libero.

Chi frequenta la città può immaginare facilmente la tematica trattata dal progetto.

Da tempo Napoli ha importati problemi con il suo mare, in mano a privati nonostante le concessioni siano state revocate. “Mare Libero” è anche il nome di chi proprio per poter usufruire del mare, liberamente e come dichiarato per legge, sta protestando da mesi, di estate in estate.

Attraverso una serie di scatti, pubblicati su Outpump, Ciro Pipoli e Gisella Lancellotti hanno scelto di esplorare la connessione che i napoletani hanno con il loro mare. Questa relazione però non è solo fonte di gioia e serenità, ma anche di frustrazione e desiderio insoddisfatto.

Tramite le fotografie presentate, infatti, è possibile muoversi tra le strade dei Quartieri Spagnoli, dove l’estate e il mare si insinuano nella vita quotidiana, in una città in cui il mare non è realmente libero.

Il mare come palcoscenico urbano

Ciro Pipoli, insieme a Gisella Lancellotti, ha scelto di rappresentare Napoli attraverso immagini che trasformano il quotidiano in un palcoscenico di leggerezza e surrealismo. La scelta non è casuale, ma intende sottolineare come, nonostante la distanza fisica e talvolta anche sociale dal mare, i napoletani continuano a vivere e a respirare l’essenza marina che li circonda.

Tuttavia, come anticipato, il progetto “Mare Libero” non si limita a esaltare la bellezza del mare e la sua connessione con Napoli, ma mette in evidenza anche le difficoltà di accesso al mare per molti cittadini. In una città che dovrebbe vivere di mare, l’accesso alle spiagge è spesso limitato, regolamentato o addirittura negato. Questa limitazione crea un paradosso: il mare è tanto vicino quanto lontano, e questa frustrazione si riflette nelle immagini di Ciro Pipoli. C’è un sottotesto di protesta in queste fotografie, un “grido silenzioso” che richiama l’attenzione su un desiderio insoddisfatto, su una connessione naturale che viene interrotta da barriere invisibili, sociali e fisiche.

Creatività come strumento di riflessione

Come menzionato nel mese di maggio da un punto di vista creativo e prettamente fotografico, il racconto delle spiagge partenopee si stava assottigliando.

Fra libri, street photography e campagne pubblicitarie c’è un pericolo nel ridurre una città ricca di storia e cultura a un semplice prodotto turistico. Ciro Pipoli però è riuscito a contrastare questa tendenza, utilizzando la fotografia come mezzo per riflettere su una tematica importante, sul rapporto fra Napoli e il mare.

La musica è una conseguenza: Edoardo Florio di Grazia si racconta

Edoardo Florio Di Grazia è un cantautore originario della Costiera amalfitana, di famiglia napoletana nato a Firenze. La sua musica è un viaggio, un’esperienza che unisce mondi lontanissimi creando paesaggi immaginari su cui sognare. Edoardo, pur essendo residente a Parigi, mantiene strette le sue radici partenopee. Mi confessa inoltre che la musica per lui è “solo” una conseguenza dove la sua visuale del mondo accumulata negli anni è fonte di ispirazione quotidiana. Ho avuto il piacere di ascoltarlo tramite l’emittente parigina France Inter ed è stato amore a primo ascolto. Il sound ricco di sfumature territoriali che usciva dalle cuffie mi ha subito rapito. Detto fatto, la curiosità mi ha spinto a conoscere meglio il suo vissuto e la sua scrittura.

Costiera, Napoli, Firenze e Parigi: com’è cambiata la tua concezione di casa? Quanto questi spostamenti influenzano la tua musica?

Essendo nato a Firenze da una famiglia stabilitasi precedentemente a Napoli ma di origini della Costiera e avendo perso mia mamma due anni fa – nel bel mezzo della registrazione del mio primo disco – tutto il concetto che ho sempre idealizzato di riparo ma soprattutto di casa è improvvisamente crollato. 

Ragionandoci su, mi è sembrato giusto trovare una nuova definizione di dimora che ritrovo principalmente nelle mie passioni, nella mia anima ma anche nello sguardo rispetto al mio vissuto come cito nel singolo “Indossare il Mare”.


Mi racconteresti qualcosina in più di questo singolo?

Tra le mie tracce preferite, Il tutto in collaborazione con brunopatchworks dei Voilaaa Sound System che reputo collettivo incredibile. Il mare rappresenta il concetto di anima e forse di casa. Una zona di comfort a cui affidare il nostro inconscio. 

Dopo la perdita della mia amata madre ho ritrovato le risposte che cercavo proprio in questo brano. Quindi: “ascoltare il mare per ingannare la follia” di una vita talvolta fin troppo pragmatica. Mi piace ricordare Daniele Pace degli Squallor che è stato grande fonte di ispirazione e incoraggiamento per riuscire a trasformare questo dolore in libertà e creatività – che se riesci ad esternare verso i più – lo trasformi in messaggio di apertura e di ricostruzione. 

Com’è nata la collaborazione con il fotografo documentarista londinese Sam Gregg che ha inoltre contribuito alla realizzazione della cover del tuo primo album “Ambra e Corallo”?

Anche se il mio accento mente, le mie radici portano sempre a Napoli: napoletano a Firenze, fiorentino a Napoli ed italiano a Parigi. Uno sguardo straniero, quello di Sam, che stimola ad una curiosità sconfinata e priva di stereotipi. La prima volta che ci siamo incontrati ho pensato: “cazzo, lui si che mostra la Napoli senza filtri!”. 

Sam è stato capace di trasportarmi in luoghi come il Pallonetto di Santa Lucia, il Rione Sanità e Poggioreale ed è li che ho conosciuto persone di rara fattura in case, pescherie e bassi che ci hanno ispirato per la realizzazione della cover. L’ampiezza di una vita di quartiere nel cuore pulsante di Napoli che ospita ed accoglie l’ignoto con passione e curiosità. Due cose ci accomunano in particolare: l’amore per questa terra ed un innato senso di appartenenza. 

Com’è nato invece, il progetto identitario che hai sviluppato con la label parigina Comet Records?

Il co-fondatore e artist manager dell’etichetta Eric Trosset saprà sicuramente darti una risposta esaustiva” (scherza). In effetti, tutto nasce dalla bellissima e fortunata conoscenza con Tony Allen (primo resident artist della label) e dal mio approccio del tutto casuale con la Francia; in particolare Le Canon: villaggio sul mare vicino Bordeaux. Posto incantevole dove si coltivano le ostriche e dove ho iniziato a scrivere le prime canzoni in francese. 

Una sera mentre ero a cena con Tony – tra gli incontri più fondativi della mia vita – conobbi Eric, che essendo informato delle mie origini partenopee, mi chiese consigli sul territorio lasciandomi i suoi contatti. 

Successivamente ed avendo canzoni accumulate nel cassetto, mi proposi alla Comet e, con immenso orgoglio, la mia richiesta fu soddisfatta. Ricordo ancora il momento della firma dove Eric – innamoratosi del progetto – mi chiese di poter visitare i luoghi a me cari. Proprio in quel momento nacque la nostra collaborazione, che tra le tante idee, ci ha visti impegnati ad esplorare il mondo dietro il nostro primo album attraverso una piccola serie docu-beats alla scoperta del territorio e della religiosità pagana che ci rappresenta.

Cos’è per te Napoli? 

Napoli è un luogo in cui perdersi e scoprire la sua stratificazione profonda. Tuttavia, per entrare in contatto con questa bellezza, bisogna lasciarsi andare alla curiosità dei luoghi in cui ti senti nel posto giusto al momento giusto. 

Un esempio su tutti: il concerto a cui ho assistito del maestro Marcello Colasurdo alla festa della Madonna delle Galline a Pagani. Ovviamente, o hai la fortuna di nascere in quei luoghi o devi essere spinto da un forte desiderio che ti conduce alla scoperta di queste tradizioni secolari. Una bellezza arcaica che non smette mai di stupire e di rinnovarsi.

Ho sempre subito il grande fascino della natura, della mitologia e della temporalità. Napoli, credo rappresenti tutto ciò; questa sorta di equilibrio tra il mondo contemporaneo e quello antico che continua a generare bellezza. Penso inoltre che il territorio viva da protagonista il più grande tabù dell’epoca contemporanea: l’aldilà. 

Laureatomi con una tesi sulla morte dei santi nel Medioevo ed essendo sempre stato affascinato dall’argomento – come mezzo di cultura – Napoli per me è tuttora fonte di ispirazione. Racconto un aneddoto: un amico mi ha rivelato che – in scooter e per le strade della città – sfreccia quotidianamente a 2mila pur consapevole del pericolo. Con un po’ di immaginazione, ho dato origine ad un pensiero: La città – che viaggia a stretto contatto con la dottrina della morte (vedi il Vesuvio, il cimitero delle fontanelle o l’Ipogeo dei Cristallini) – non si pone limiti comportamentali generando una vitalità totale: vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo. Mi piace pensare che tutto ciò è meraviglioso ma nasconde anche delle insidie che possono portare ad un male limitante per cui Napoli – a mio parere – ne risente tutt’oggi.

A microfono spento mi confessa: “Pur essendo immigrato, sogno ancora Napoli. Il progetto di una vita dove la musica è una conseguenza e Parthenope un punto di arrivo”.